(Nagyszentmiklós, 25 marzo 1881 – New York, 26 settembre 1945)
Rivelatosi ottimo pianista fin da fanciullo, si perfeziona all'Accademia Musicale di Budapest, imponendosi all'attenzione del pubblico internazionale già nei primi anni del secolo. Nello stesso tempo incomincia con Kodàly a occuparsi del canto popolare del suo paese, svolgendo per un decennio un'attività intensa di raccoglitore e trascrittore del ricchissimo patrimonio musicale folclorico dei balcani e arabo. Dal 1907 insegnò pianoforte all'Accademia di Budapest, sempre tenendo ampie tournées concenistiche in patria e all'estero, anche in duo con la moglie e col violinista Szigeti.
Circondato dall'ammirazione e dalla stima dei suoi contemporanei, nel 1939 lasciò per ragioni politiche l'Ungheria stabilendosi negli Stati Uniti, dove tenne conferenze e si dedicò al concertismo e all'insegnamento, senza riuscire peraltro a inserirsi interamente in questo paese a lui estraneo, tanto che pochi anni dopo moriva in solitudine e nella miseria piu nera.
Influenzato all'epoca della sua formazione soprattutto dalle grandi correnti della musica centro-europea, da Brahms a Wagner, all'impressionismo, Bartok si volse gradualmente allo studio del patrimonio musicale popolare del suo paese, traendone suggerimenti decisivi per la sua produzione. Egli infatti seppe fondere le avanzate tecniche della musica colta europea, la conoscenza approfondita e spregiudicata delle piu moderne tendenze musicali dell'Europa dell'epoca, con la coscienza che solo attingendo in profondità al folclore musicale gli sarebbe stato possibile creare un'arte svincolata dall'influsso di altre civiltà, sprovincializzata e insieme aperta ai più attuali problemi di linguaggio. Il folclore balcanico, con la sua incredibile ricchezza di ritmi, di movenze melodiche e di inflessioni modali completamente estranee alla tonalità, gli fornì così una base solidissima su cui poté erigere un grandioso edificio musicale che lo qualifica come un compositore profondamente radicato nella civiltà del suo paese, iniziatore di un movimento nazionale da cui è possibile attendersi sviluppi assai ampi.
Ma Bartòk era musicista troppo avvertito per non servirsi di questo "materiale" popolare in senso modernamente critico.
Nella sua produzione è così possibile ravvisare il riflesso della grande cultura musicale centro-europea anche dopo l'introduzione dell'elemento popolare. Basti dire che egli sentì fortemente dopo il 1910 l'influsso dell'espressionismo di marca viennese, che in alcune opere posteriori è evidente l'inclinazione a una stilizzazione di tipo neoclassico, che infine, nelle ultime opere della maturità, egli sembra aspirare a una distesa semplicità di linguaggio, in cui fa appello decisamente a quella tonalità che in alcune opere del periodo di mezzo era quasi giunto a rinnegare o comunque a sottoporre a una critica severa.
Tutto questo è una testimonianza della mentalità estremamente aperta del musicista, che piega il materiale folclorico a un tipo di espressione ad alto livello d'arte: ciò che infatti costituisce in lui il momento della spinta in avanti è proprio questo rapporto non superficiale col canto e la danza popolare, questo rapporto dialettico che gli permette di superare le angustie di un materiale legato alla vita contadina trasfigurandolo in composizioni di grandiosi sviluppi senza tradirne lo spirito e pure modificando profondamente il dato immediato, in sé quasi naturalistico. Bartòk ha indicato quale via si deve seguire nell'impiego del canto popolare nella musica d'arte: è una via difficile e densa di problemi, ma è anche l'unica che permetta di rinnovare ampiamente i mezzi tecnici del musicista moderno senza cedere a una concezione superficiale e utilitaristica delle manifestazioni dell'arte popolare.
Oltre alla musica orchestrale Bartòk è anche autore dell'opera Il Castello di Barbablù (1918) e delle "azioni sceniche" Il Principe di legno (1917) e Il Mandarino meraviglioso (1919); ma nella sua produzione conserva un posto di primo piano anche la musica da camera, in particolare i sei grandiosi quartetti (1908-39), i pezzi per strumenti diversi e pianoforte e quelli per pianoforte solo (tra cui il Mikrokosmos, l'unico metodo d'insegnamento pianistico basato su criteri di spregiudicata modernità).
Scritto per l'orchestra di Basilea diretta da Paul Sacher, questo pezzo è stato ritenuto per lunghi anni il capolavoro orchestrale di Bartòk. Di fatto, la suggestione che se ne sprigiona è straordinaria e indimenticabile. L'assorbimento dell'esperienza etnica è giunto qui al suo massimo stadio di rarefazione: fattesi scarse le citazioni letterali di temi popolari, il fattore etnico è trasfigurato nella musica ma rimane nell'incessante mutare dei ritmi e in certe tipiche inflessioni melodiche. Il primo tempo "Andante tranquillo" confina, nel suo cromatismo, con l'atonalità: è una fuga "a ventaglio," basata su un tema proposto inizialmente dalle viole in pianissimo con sordina, un tema cromatico che si allarga a poco a poco con le successive entrate degli altri strumenti (sempre a distanza di quinta) fino ad esplodere in uno spasmodico accordo di mi bemolle maggiore, per dar luogo poco dopo a un sognante episodio con l'intervento della celesta.
L"'Allegro" successivo, in netta opposizione al primo tempo, presenta ritmi marcati, uno straordinario vigore di accenti melodici, uno strumentale cangiante in cui sono tipici i frequenti glissandi pizzicati. Se qui ritorna per un momento un preciso riferimento alla musica folclorica ungherese, nel terzo tempo, "Adagio", siamo nuovamente in un clima irreale, generato da un cromatismo irrequieto e da un sottofondo timbrico creato dalla celesta, dall'arpa e dal pianoforte oltre che dai timpani a pedale, che permettono un costante glissando.
Solo il finale "Allegro molto" riporta un clima assai diverso, dove ritornano ritmi e melodie "ungheresi": è un brano agile, rapido, marcato, in cui l'orchestra raggiunge effetti mirabili di sonorità in un discorso che sembra a volte zingarescamente improvvisato, prima di concludersi bruscamente su un accordo di la maggiore.