Caro libro ti scrivo
Lettera al PRINCIPE ANDREJ NIKOLÀEVIČ BOLKONSKIJ
(Guerra e Pace)
di Elisa Rubini
Caro principe Andrej,
Non è facile per me cominciare questa lettera. Ho riletto più volte le
prime righe e le ho cancellate altrettante. Forse perché non è una lettera
comune, non è diretta a un amico, né a una persona viva. È per lei, che
appartiene a un tempo lontano, ma che da quando l’ho incontrata sulle pagine di
Tolstoj non ha più smesso di camminarmi accanto.
Mi chiamo Elisa, e vivo in un secolo in cui la guerra non si combatte più
con le spade. Non ci sono cavalli, né fucili, né bandiere che sventolano. Ma,
creda a me, combattiamo lo stesso. Ogni giorno. Solo che le nostre battaglie
sono dentro. Invisibili, silenziose, a volte crudeli. Si combattono nei
pensieri, nel cuore, nel bisogno costante di sembrare forti anche quando non lo
siamo.
Spesso mi viene in mente la scena di Austerlitz. Lei ferito, disteso a
terra, il cielo sopra di sé. E quella sensazione di resa, di scoperta, di
improvvisa lucidità. Quando si accorge che tutto ciò per cui aveva lottato – la
gloria, l’onore, il riconoscimento – non vale niente di fronte all’immensità di
quel cielo. Ogni volta che ci penso, sento un nodo allo stomaco. È come se per
un attimo riuscissi a vedere anch’io quello che lei ha visto.
Mi piacerebbe dirle che oggi siamo diventati più saggi. Che abbiamo
imparato qualcosa. Ma non è così. Ci siamo solo inventati altri modi per
sentirci invincibili. Le nostre divise sono fatte di abiti eleganti, di profili
curati sui social, di frasi studiate per sembrare migliori di ciò che siamo. Ci
illudiamo che la vita sia una vetrina da tenere sempre pulita, e intanto ci
svuotiamo dentro.
Forse lei non capirebbe questo mondo. O forse sì, e ne sarebbe solo più
triste. Io, a volte, lo guardo con un misto di stanchezza e di tenerezza. Vedo
persone correre, parlare, ridere a voce alta, ma con gli occhi persi altrove. E
penso a lei, alla sua solitudine composta, a quel suo modo di cercare la verità
anche quando faceva male.
Vorrei impararlo, quel modo. Riuscire a guardare le cose senza paura, anche
quando mostrano il lato peggiore. Lei sapeva stare nel dolore senza lasciarsene
divorare. Io, invece, quando la vita si fa dura, tendo a nascondermi. Eppure
qualcosa, nelle sue parole, mi fa pensare che la pace non si trovi fuggendo, ma
attraversando.
Lei ha conosciuto la perdita, il disincanto, il vuoto che resta dopo una
grande illusione. E nonostante tutto ha continuato a cercare un senso, una
luce, un gesto di bontà in mezzo al disordine del mondo. È questo che la rende
così vivo, anche oggi. Non la sua nobiltà, non la sua uniforme, ma quella
fragile ostinazione a credere che valga ancora la pena vivere.
Mi domando spesso cosa direbbe, se potesse vedere la nostra epoca. Forse
resterebbe in silenzio, come fa chi ha già visto troppo. Forse si limiterebbe a
osservare. La immagino in una piazza moderna, seduto su una panchina. La gente
passerebbe di fretta, con le cuffie nelle orecchie e lo sguardo basso. Lei,
invece, guarderebbe verso gli alberi. Noterebbe il vento che muove le foglie,
il bambino che trascina il suo zaino, la donna che si ferma a sistemarsi i
capelli e, nel farlo, lascia scivolare via un pensiero triste.
Ecco, credo che lei capirebbe subito tutto. Non servirebbero parole. Perché
c’è qualcosa nel suo modo di osservare che va oltre la logica: è un vedere che
somiglia a una carezza.
Il mondo oggi ha bisogno di quella carezza. Di qualcuno che ricordi che la
grandezza non è potenza, ma misura. Non è urlare, ma restare presenti. Lei mi
ha insegnato questo, senza nemmeno saperlo.
E mi ha insegnato anche che la pace non è assenza di rumore, ma silenzio
interiore. Non si trova nei palazzi, ma nel saper accettare ciò che non
possiamo cambiare. Io sto ancora imparando, giorno dopo giorno. Ci sono momenti
in cui credo di averla trovata, e altri in cui la perdo di nuovo. Ma ora so che
vale la pena cercarla.
Forse è per questo che le scrivo. Per dirle grazie. Perché a volte basta
incontrare un personaggio come lei per sentirsi un po’ meno soli. Non importa
che lei appartenga a un romanzo, o che il suo autore non ci sia più. Alcune
figure vivono per sempre, proprio perché ci mostrano parti di noi che avevamo
dimenticato.
Se potessi stringerle la mano, le direi che il suo cielo di Austerlitz non
è andato perduto. È ancora qui, sopra di noi. Ogni volta che qualcuno si ferma,
anche solo un attimo, a guardare il mondo con occhi sinceri, quel cielo torna a
brillare.
Con gratitudine, e un po’ di malinconia,
Elisa