Wednesday, December 10, 2025

Piergianni Curti: Pink Moon



Il nostro gioco è di far arrapare sta gente di sta città senza senso.
Quando passiamo sembriamo due aerei carichi di bellezza che vanno a schiantarsi sul corso. La gente non fiata più. Le nostre minigonne iniziano più o meno dove finiscono ma non è qui il punto. È che sti aerei sono carichi di intelligenza che da queste parti non si è mai vista. Prima o poi ce ne andremo ma per adesso dobbiamo fare gli esami di terza media. Siamo le prime della classe, anzi di tutte le classi messe insieme. Certo che non è che a scuola c’è tutto sto clima interessante, però leggiamo tutto quello che arriva alla biblioteca. Ci portiamo sempre qualche libro dietro, anche quando facciamo il défilé sul corso in modo che non ci prendano per due come loro.
Letizia dall’alto dei suoi uno e settanta per quasi quattordici anni va avanti. Si muove che sembra che sposti la città ad ogni passo. La fa ondeggiare. Quando arrivo io gli do il colpo di grazia. Faccio come se non avessi un corpo ma più faccio finta che non c’è e più si vede. Non sono io che cammino. È il mio corpo che fa tutto da solo. A quelli gli prende male.
Mia mamma mi dice sempre che dovrei nasconderlo sto corpo che mi porterà guai. «E come faccio, non si può nascondere la verità» le rispondo. Che non è una gran risposta per mia mamma, ma cosa le dovrei dire? Tanto le prende sempre la depressione prima e dopo, qualunque cosa io dico. Voglio bene a mia mamma ma non so che cos’altro potrei dire.
La cosa che mi piace di più in assoluto? La matematica. Non scherzo. Mi piace perché ci vuole potenza. E la potenza ce l’hanno in pochi. Ce l’hai o non ce l’hai. Non è una cosa che lavori e lavori e ci arrivi. Per esempio, io prendo il libro di geometria. Leggo: “Teorema b23: In un triangolo, eccetera, eccetera”.
Mi concentro e metto in moto la macchina. Ti viene o non ti viene. A me viene. Dopo un po’ ho capito come si dimostra. Non c’è niente di più eccitante al mondo. A Letizia non viene. È il suo unico limite. Ogni tanto l’aiuto a fare matematica. Mi fa tenerezza. Proprio non ci arriva. Però è lo stesso il massimo. Un giorno forse faremo una ditta: io faccio teoremi e lei li vende.
Stamattina mi sono misurata. Veramente mi controllerei tutti i giorni ma il bello è di vedere scattare i centimetri. Adesso per l’esattezza sono centosettantaquattro e nove per tredici anni, otto mesi e un giorno. Ho misurato 10 volte e ho fatto la media. Ogni tanto festeggiamo che ci siamo conosciute: tiriamo a sorte giorno e mese e non ci vede più nessuno fino alla sera. Mia mamma sospira che non è quella l’ora di tornare, alla mia età. «Avevamo da studiare, mamma». Non può mica dire che non è vero, no?
Abbiamo deciso di restare vergini, di non bere, non fumare, non scopare, non mangiare porcate, non farsi, non perdere tempo. Ci amiamo. Staremo sempre insieme. Mi sembra stupendo.
Comunque non si parla d’altro che di sti due morti ammazzati. Prima dicevano che era un maniaco, poi un serial killer. Quasi nello stesso modo, tutti e due. Da ridere. Un sacchetto di plastica trasparente fissato con il nastro isolante attorno al collo. C’avevano gli occhi spalancati. Letizia dice che sono morti dimenticandosi di spegnere la luce. A me non mi fa nessuna impressione. A mia mamma ho detto:
«Di morti ce n’è un mucchio. Non vedi? E guardati attorno». Mi ha risposto che un giorno mi pentirò di quello che ho detto. E che non devo credere che anche lei è così, e tutti quanti quelli che io disprezzo.
«Non t’ho mica detto che tu sei morta, no?»
«Però lo pensi»
Non ho risposto. Mi ha detto che sarò io a farla morire. Non c’ha un minimo di logica. Le ho risposto:
«Ragiona. Se io non ci fossi moriresti lo stesso».
Sul Corriere di suo padre Letizia ha letto che erano fatti di sedativi. In casa mia mia mamma prende En e Serenase. Mio papà Tavor. Da Letizia Minias, Roipnol, più Tavor, più En, più Seropram. Mia mamma non dorme quando c’è il vento. «E quando non c’è non dormi perché lo aspetti?».
Mi sono presa una sberla, ma non è che sia davvero riuscita a prendermi.
A scuola la prof di italiano ci ha detto che è il secondo in due mesi. «Uno al mese!» abbiamo fatto tutti in coro. Lei ci ha detto che c’era poco da scherzare e che c’è qualche maniaco in giro. Allora Letizia le ha chiesto ma che cos’è un maniaco e tutti ridacchiavamo. La professoressa ha cominciato a non sapere più bene che cosa poteva dire, come dirlo, eccetera. Alla fine è entrato il bidello a chiamarla perché la voleva il preside. «E tre!» abbiamo esclamato. Ma non era così. Siamo andate alla pineta. A mia mamma ho detto che andavo da Letizia e Letizia ha detto a sua mamma che veniva da me. Abbiamo cominciato a baciarci. Letizia ha delle labbra che sembrano un divano. Ti ci puoi sdraiare. Credo che a questo mondo ci siamo solo noi due. È pieno di maschi che ci vengono dietro, vecchi e giovani. E anche di donne. Due mesi fa quella che hanno trovato morta che occhieggiava dal sacchetto di plastica le aveva regalato un libro scritto proprio da lei. Non ce lo siamo letto di certo. Si aspettava di mettere la lingua tra le gambe di Letizia. Quando le ha restituito il libro la signora le ha detto: «Tienilo pure. Voglio che tu lo tenga». Ha detto anche che presto le avrebbe fatto un altro regalo. Ma quel presto non è mai arrivato.
È una città in cui ci si dà da fare. A volte mi chiedo come fa la gente come mia madre che non si dà da fare e che forse non sa neanche cosa voglia dire. E mio padre? Magari si dà da fare con una simile a mia madre che a casa sembra una morta come mia madre. E magari mia madre si dà da fare di nascosto con uno che assomiglia a mio padre. Ma la signora del libro era diversa. Faceva solo quello nella vita. Scriveva favole per bambini e si dava da fare. Da piccola mia mamma me le ha lette una volta. Erano sul giornale locale.
Quello che hanno trovato per secondo anche ci aveva provato, ma più con me che con Letizia. Mi ha messo un bigliettino in mano. Mi voleva dare un mucchio di soldi. Ci siamo dette con Letizia: ce li mettiamo da parte e poi ce ne andiamo a vivere insieme. Il giorno dopo mi ha messo in mano un altro bigliettino. Ho fatto finta di niente. «Allora?» mi ha chiesto. Gli ho dato del lei:
«Quanti anni ha?»
«Trentacinque»
«Allora ne voglio il doppio». Non stava più nella pelle:
«Quando?»
«Non so. Devo studiare. E poi non voglio che mi vedano con lei». Non avevo nessuna intenzione. Però ero curiosa. Tre giorni dopo me lo sono visto davanti con la sua Bmw. Non c’era nessuno. Mi ha detto: «Sali?». Insomma sono salita. Mi ha portato lungo la litoranea, verso sud. Cercava di toccare.
«Non è che ti viene un malore alla tua età?» gli ho detto. In quel momento mi ha telefonato Letizia: «Che fai?». Le ho risposto in codice “effe” come “fuck” ma esageravo.
«Chi era?»
«Mia madre. Mi tiene sempre sotto controllo». Si è preoccupato, così l’ho tenuto a bada per un po’. Non è stato un granché. Dato che ero vergine non gli ho lasciato fare proprio tutto quello che voleva. Mi sono messa i soldi nel reggiseno. Al ritorno ho chiamato Letizia “ipsilon” che era co me dire “yes”. Prima di farmi scendere mi ha detto che mi amava. «Io no» gli ho risposto. E poi ho aggiunto: «Il mio prezzo va come la successione di Fibonacci».
«Cioè?»
«1, 2, 3, 5, 8, 13,… Devi sommare quello che hai pagato la volta prima con quello della volta prima ancora».
Quando sono tornata a casa ho fatto una doccia. Ma cercavo di non lavarmi. Ero attratta da quel nuovo corpo. Per una settimana non ci siamo fatte vedere. Avevamo da studiare. Non era ancora successo niente. Nessun omicidio. La signora dei racconti per bambini ci stava ancora provando e pensavamo che saremmo diventate ricche e saremmo andate a vivere insieme.
La seconda volta col trentacinquenne ha voluto venire anche Letizia. Gli abbiamo dato appuntamento fuori, in pineta. Gli abbiamo detto che avevamo solo un’ora di tempo e che doveva pagare tutte e due. Non ha fatto storie.
«Vuoi che ci baciamo?»
Gli abbiamo fatto vedere un po’ di cosette così si è arrangiato da solo.
Poi gli abbiamo fatto notare che era tardi e che sarebbe stato per un’altra volta. Non ha fiatato, se non quando mi ha detto che era pazzamente innamorato di me. «Io pazzamente di lei» gli ho risposto accarezzando Letizia. Quando ci ha lasciato abbiamo camminato leggere fino in centro.
La signora che scrive favole l’ha ammazzata una donna e il trentacinquenne un uomo sui novanta chili, dicono. Abbiamo avuto persino l’impressione che non ci guardi più nessuno. I più guardati sono gli uomini sui novanta chili. Io e Letizia ci facciamo la nostra vita. Studiamo e andiamo per i fatti nostri. Letizia mi ha confessato di essere stata a casa della signora che scrive racconti per bambini. Ma che non è successo niente. Hanno trovato secco anche il prof Maniscalco. Stavolta non abbiamo sentito la prof Sibona, quella di lettere. Ci hanno mandato tutti nella sala polivalente del comune dove c’era il preside, un prete, un altro che era uno psicologo e un carabiniere. E lì state attenti qui e state attenti là.
Il professor Maniscalco mi guardava sempre le gambe. Una volta ci ha fermato me e Letizia per dirci che il preside non voleva le minigonne ma che lui era per la libertà. C’aveva quarantotto anni. «Uno così c’ha sempre la miccia accesa» mi ripeteva Letizia. «Qualche volta gli si aprono i pantaloni e scoppia tutto. E spegnili sta miccia, no?»
«E spegnigliela tu» rispondevo. Allora un giorno nel corridoio gli abbiamo chiesto, visto che era di educazione tecnologica:
«Ma come funziona la miccia?»
«Quale miccia?». Intanto Letizia aveva fatto finta di cadere e gli si era aggrappata. Lui si era sbilanciato ed era finito proprio con la mano sulle mie tette. Non avevo detto niente e neanche mi ero tirata indietro. Era rosso come un pomodoro. Adesso si è accesa la miccia abbiamo pensato e abbiamo fatto di tutto per non ridere. Lui non riusciva a staccare sta mano. Allora ho fatto un passo indietro.
Il quarto però non se lo aspettava nessuno. Letizia stava sdraiata per terra. Teneva gli occhi ben aperti. Era seminuda. Aveva la testa dentro un sacchetto di plastica trasparente. Aveva anche il rossetto. Chi aveva mai visto Letizia col rossetto? Sul giornale la madre diceva che Letizia non si era mai messa il rossetto. La sua amica Marosia diceva che qualche volta se lo mettevano, per scherzo. Tanto le avevano viste tutti, tranne sua madre. I carabinieri avevano voluto sapere un mucchio di cose su Letizia.
Ma soprattutto volevano sapere se c’era qualcuno che voleva farsela. Non potevo mica dirgli che una volta il prof Maniscalco le aveva detto che male c’è se ci vediamo? Anche a me l’aveva detto. Mia mamma sembrava più distrutta del solito. Anche lei voleva sapere un mucchio di cose ma non sapeva come fare.
«E cosa ti hanno chiesto i carabinieri?»
«Niente»
«Non so, se c’era qualcuno»
«Sì»
«E c’era sto qualcuno?»
«No»
«Ma sei proprio sicura?»
«Non c’era nessuno, ti dico»
«Ma come, una come Letizia. Ed eravate sempre insieme, no?»
E i carabinieri che mi continuavano a dire: «Certo una carina come te. E una carina come Letizia. E che dico carina? Bella. Bellissima. Chissà quanta gente ti guarda quando cammini. Ci sarà stato qualcuno che qualche volta vi ha detto qualcosa a te e a Letizia, no? E poi, sto professore Maniscalco. Magari lo conoscevate bene, no? Lo conoscevi sto professor Maniscalco?»
«Lo conoscevano tutti a scuola».
«Sì, ma era uno»
«Uno come?»
Al funerale c’era un mucchio di gente. Tutta la scuola e tutta la città.
Comunque non volevo piangere ma poi ho pianto lo stesso.
Ho passato quindici giorni a prepararmi per gli esami. A Letizia non voglio pensarci. Il prossimo anno vado al liceo e questa è l’unica cosa a cui voglio pensare. Mi guardano tutti come se fossi una che sa un mucchio di cose. Prima o poi me ne vado da sto posto e così non dico più niente a nessuno. Non mi va più bene sto reggiseno. Mi piace guardarmi allo specchio. Mi tolgo tutto e mi guardo. Mi chiudo bene a chiave. Mia mamma ci prova sempre “Cosa fai chiusa in camera? Che fai sempre chiusa in camera?” Tengo lo stereo alzato. Ascolto Nick Drake e studio. Studio e studio. Più studio e più mi piace studiare.
Ho preso un altro centimetro.
Io lo so chi è stato ma non glielo dirò mai.
Adesso c’è anche una psicologa perché sono minorenne. La psicologa mi dice sempre: «Certo che sei proprio bella». Io penso: «Puoi ben dire». Allora le rispondo: «Non mi sono mai accorta di essere bella. Io non mi sento per nulla bella. Non so se gli altri mi vedono bella, a me non me l’hanno mai detto».
La frego sempre. C’ha dei denti lunghi e se li mastica mentre cerca di sorridere in continuazione e di dire stronzate che io non dovrei accorgermi che lei dice per inchiappettarmi.
«Però ti vesti come»
«Cioè?»
«Beh, si vede che ci tieni alla tua figura»
«Ma se si vestono tutte così, anche le racchie»
«Allora pensi che tu non sei una racchia»
«Perché, vuol dire essere belle?»
Insomma, si mastica sti denti e si digerisce tutto per finta. Poi mi dice:
«A venerdì».
«A venerdì». Mi alzo e cammino con le gambe strette e piegate come se mi scappasse. E mi tiro giù in continuazione la minigonna. Adesso lo faccio anche fuori così i carabinieri che mi spiano sono costretti a guardarmi ancora di più. Chissà quante pippe si fanno. Ho detto alla psicologa:
«Altro che farmi guardare dagli altri. Saranno sti carabinieri che mi guardano e mi spiano tutto il giorno».
Ha preso una bella boccata d’aria da masticarsi per un po’ e poi ha fatto la più bella faccia come se si stupisse e mi ha detto:
«Ti senti perseguitata?»
«No, ma me lo dicono tutti»
«Chi?»
«Tutti»
«E tu ci credi?»
«A cosa devo credere, allora? A lei che non lo sa?»
Si è masticata ancora un po’ d’aria e poi mi ha detto: «A venerdì». Ho fatto finta di essere spaventata: «Ho paura». Allora si è illuminata: «Ci sono io. Ci sono io mia cara». Ha fatto per prendermi le mani. Che schifo.
Istintivamente le ho ritirate. Allora le ho rifilato un: «Beata lei che sorride sempre». L’ho fregata. Adesso non vorrebbe più sorridere ma è troppo abituata a farlo e allora si ricorda di colpo che non deve sorridere come una scema e poi subito dopo si dimentica che non deve sorridere come una scema.
Intanto il mio corpo si allontana da questo mondo. Possono solo guardarselo e morire di invidia. Come canta Nick Drake in Pink Moon: «la luna rosa è in cammino/ e nessuno di voi potrà mai stare così in alto».
Adesso mi fanno spiare da due donne carabiniere, così almeno non si fanno le pippe. A meno che. Adesso invece di tirarmi giù la minigonna me la tiro sempre più su così ’ste chiattone vedono cos’è un corpo. La psicologa mi ha detto:
«Ti piace andare in giro?»
Allora faccio finta di no: «Non mi piace ma se sto a casa mi sento male».
«Interessante»
«Ho paura che i mobili si suicidino»
«Cioè?»
«Si suicidano»
«Interessante. Veramente. E come fanno?»
Allora le racconto che il frigo si spara e il letto si impicca. Non sa proprio cosa dire. L’ho definitivamente fregata. E davvero stavolta non le viene quel sorriso idiota. Poi si è fatta seria: «C’era qualcosa tra te e Letizia?»
Era divertente. Facevo finta di non capire. Cercava di girarci attorno.
Ad un certo punto mi ha detto: «Vi mandavate strani messaggi. Tipo ND. E un mucchio di sms vuoti. Che significavano?»
«E come lo sa?»
«Dai tabulati»
«Ci piaceva Nick Drake»
«Nick Drake?»
«È un cantante»
«Americano?»
«Inglese»
«È giovane?»
«Sì»
«Quanti anni ha?»
«È morto»
«Quando?»
«Saranno trent’anni»
«E come è morto?»
«Ha preso troppe medicine»
«Ah. E di cosa parla nelle sue canzoni?»
«Delle solite cose. Ci piaceva la musica»
«Ah. Sai, noi siamo convinti che tu sappia molte cose ma che non ce le voglia dire»
«Se sapessi qualcosa che non ho ancora detto ve lo direi così mi lascereste finalmente in pace»
«E cosa faresti se ti lasciassimo in pace?»
«La mia vita»
«E qual è la tua vita?»
«Studiare»
«Cosa?»
«Matematica»
E così sono finiti i nostri colloqui. Io ho cominciato davvero a studiarla giorno e notte e a diventare sempre meglio e a non uscire più.
Hanno dovuto lasciarmi in pace per forza.
Con la scrittrice di favole per bambini non siamo andate lì con l’intenzione. Era insopportabile quanto fosse arrapata. Puzzava di alcol.
Ad un certo punto le ho chiesto se voleva che le facessimo vedere qualcosa.
Non mi sarei fatta toccare con un dito. Le ho detto che doveva pagarci.
«D’accordo» ha risposto. Poi ha cominciato ad allungare le mani. Ci siamo guardate.
Abbiamo cominciato a far finta di scappare. Lei si avvicinava. Stavamo lì ad aspettarla. Appena era vicina che stava per sfiorarti facevamo come si fa con il toro nell’arena: «Olè». Si sforzava di ridere ma era fuori di sé dalla voglia. Mi sono fermata. Le ho detto, dura: «Facciamo un patto. Se mi prende le concedo i primi due minuti gratis. Poi paga. Ogni minuto raddoppiamo la cifra. Cominciamo da 1 euro. Ci vuole poco a sapere che dopo due minuti fanno 2 euro, dopo tre 4 euro, dopo quattro 8, dopo 20 una cifra: 2 alla 19, 524288. Ce l’ha 8 euro?». Mi guardava senza capire. Mi sono fermata:
«Ha capito cosa le ho detto? 524288! Sennò ce ne andiamo». Volevo andarmene. Non capiva. Era furiosa. Mi ha afferrato. Le ho dato un vaso di bronzo sulla testa. Era lì, a portata di mano. È rimasta stordita ma non si fermava. Sembrava un automa in foia. Si è buttata verso di me. Le è arrivato un secondo colpo. È caduta in ginocchio. Invece di calmarsi mi ha placcato le gambe. Le ho dato un terzo colpo ed è andata giù. Ho sentito i polmoni come se si svuotassero: «woofff». Allora Letizia ha preso una boccetta di Darkene che era sul tavolino e gliel’ha versata tutta in bocca.
Invece di addormentarsi si è svegliata. Cercava di sputare debolmente.
Letizia le ha messo il cappuccio di plastica. Io le tenevo i polsi. Lei non aveva la forza di divincolarsi. Letizia le ha girato il nastro isolante attorno al collo. Poi l’abbiamo tenuta giù. La signora che scriveva racconti per bambini adesso si era ripresa e cercava di liberarsi. Muoveva la testa a sinistra e a destra e cercava di urlare. Sembrava la voce di una radio sotto le coperte. Non riusciva a respirare. Ho cominciato a contare ad alta voce: uno, due, tre. Non c’è voluto tanto, cinquanta o sessanta.
Per sicurezza ho contato fino a duecento, ma non ce n’era proprio bisogno.
Sti vecchi non hanno niente dentro, né nei muscoli e né nella testa. Non avevamo toccato niente da nessuna parte. Guanti di lana, sono il nostro distintivo. Naturalmente i carabinieri avevano trovato segni di scarpe da donna con i tacchi, numero trentanove e numero trentanove. Stesso modello, stessa marca, stesso peso, quasi. Ci voleva poco a stabilire che c’era una donna che le ha dato una botta in testa. Va a scoprire che sono due ragazzine che c’hanno il corpo da donna. Non vorrei che pensassero che c’è qualcuno tipo giustiziere che va a ripulire il mondo delle sue brutture. Niente di tutto questo. È semplicemente andata così. Faceva semplicemente schifo. Se fai un giro d’orizzonte non vedi essere umani, solo vecchi e scemi che si lamentano e si lamentano.
Il trentacinquenne facevamo finta che fosse il modo giusto per farci un po’ di soldi. Ma anche con lui era come con la signora che scriveva libri per bambini. Era come andare a scuola, nel laboratorio di scienze a fare esperimenti. Poi un giorno mi ha detto che non gli andava più in quel modo.
Che mi amava, eccetera. «Va bene» gli ho detto, «Addio». Fine dell’esperimento, abbiamo pensato io e Letizia. In effetti non ne avevamo più voglia. Invece ha cominciato a rompere. Te lo trovavi da tutte le parti. Abbiamo cambiato posto, in pineta. Però un giorno ci ha trovato. Ci aveva seguito. Noi alla pineta e lui dietro di noi che implorava e minacciava. Per tenerlo buono gli ho detto: «Cosa credi, che io non soffra?
Ma lo sai quanti anni ho? Tredici». «Ti prego» ho ancora aggiunto «Dammi il tempo di riflettere». Cercava di baciarmi ma non gliel’ho permesso. Era tardi. Ho inventato che avevo un appuntamento: «Ci accompagneresti in macchina?». Errore fatale. Ha fatto un paio di chilometri dalla parte opposta. Era fuori di testa. Allora ho finto di sentirmi male. Volevo prendere tempo. Letizia mi ha detto:
«Vuoi la tua medicina?». Geniale! «Grazie, sì». «Che medicina?» Mi ha domandato lui. «Sono malata» gli ho risposto. Letizia ha riempito un bicchiere di due boccette intere di Roipnol che aveva fregato a sua madre.
Io intanto facevo finta di avere bisogno di dormire. Ma non avevo idea di cosa sarebbe successo. Neanche Letizia. Ci ha provato. Gli ha detto: «Vuoi un po’ di coca-cola?» Gli ha dato il bicchiere con le gocce nella coca-cola. Istintivamente gli ho detto: «Al nostro» Ma non sono riuscita a pronunciare la parola amore neanche per finta. Mi sono sforzata di sorridergli. «Uno, due, tre, tutto d’un fiato, dai!» Ho toccato col mio bicchiere di plastica il suo. «Dai! Tutto di un fiato!». Abbiamo buttato giù tutto d’un fiato. «Ha uno strano sapore» ha detto lui.
«È un nuovo tipo» ha risposto Letizia. «Baciami» ho detto io. Mi veniva da vomitare. L’ho baciato e l’ho baciato. Avevo paura di avvelenarmi.
«Ne volete ancora?» Aveva riempito altri due bicchieri. Ho dovuto continuare a baciarlo e a farmi toccare finché abbiamo capito che non ce la faceva più a stare sveglio. Allora abbiamo aspettato. Abbiamo provato a svegliarlo. Così Letizia ha potuto mettergli il sacchetto.
Erano le sette. Era buio. Sono scesa. Per terra era asfaltato. Letizia è salita sulle mie spalle. Insieme saremo state sui novanta chili. Ho lasciato un paio di impronte in un punto dove c’era la terra. Camper alte di due numeri più grandi. Poi abbiamo raggiunto la spiaggia di ghiaia e di lì la passeggiata che andava verso la città.
Il prof Maniscalco mi ha sibilato: «Che ci facevate in macchina con un uomo?»
«Chi?»
«Non era certo un ragazzino. Una Bmw».
«Lei non ce l’ha la Bmw?» ha detto Letizia strafottente. Avevo paura. L’ho zittita: «Ci porta a prendere un gelato un giorno?» ho detto al prof.
«Oggi?»
«Dove?»
«A casa mia»
«Meglio domani. Oggi ho da studiare». Invece ci siamo andate alle quattro.
Pioveva e c’era poca gente in giro. Abitava in un postaccio dietro la scuola. Era guardingo. Letizia aveva tutte le sue cose da bere ma non sapevo se avrebbe funzionato. Se non funzionava dovevamo fargli qualcosa che se ne stesse zitto perché gli conveniva. Era teso e imbarazzato. Gli ho detto: «Però al massimo ti posso fare un pompino. Sono vergine». Poi non gli ho dato altro tempo. Mi sono tirata su la maglia che mi vedesse ben bene le tette. Poi mi sono tirata giù i pantaloni, me li sono tolti e mi sono levata le mutandine. Avevamo vestiti da maschio, grandi e senza forma. Si era arrapato. Gli ho fatto vedere ben bene il pelo. Non si chiedeva più se eravamo vestite da maschio o da femmina. Di fronte allo spettacolo si è dimenticato che era in allerta.
«E lei?»
«Anche lei te lo fa». Si è spogliata anche Letizia. Continuava a guardare. Letizia non ha quasi pelo. Lo ha fulminato. Continuava a guardare. Lei gli ha fatto uno spettacolo di andirivieni mentre metteva la sua roba a posto e la piegava per bene. Gli ho detto: «Spogliati. Però devi lavarti». Letizia lo ha aiutato. Ma lui continuava a guardarmi. Facevo finta di niente.
«Vatti a lavare, dai». È andato nel suo bagno cieco. Gli sono andata dietro. «Se non ti dispiace faccio pipì». «Dai, fa in fretta» gli ho ripetuto. Letizia mi ha detto: «Sbrigati, devo farla anch’io». Si è fatta un giro in cucina. Avevamo pensato ad una possibilità. Quando è tornata in bagno lui era sul bidè. Dallo sguardo di lei ho capito. Gli ho detto «Dai, ti lavo io». Non gli era venuto duro. Nessun commento. Letizia si è piazzata dietro di lui. Li aveva nascosti sotto la maglietta. Ho cominciato a succhiarlo. Poi ha cominciato lei. Mi aveva passato un coltello da cucina.
Avevo un secondo. Lei glielo ha stretto. Lui si è concentrato su quello e io ho contato solo fino a uno. Tutti i pesi che ho fatto si sono rivelati provvidenziali. Gliel’ho piantato in gola. Letizia si è alzata di scatto e si è spostata di fianco. Lui si è portato le mani alla gola. Non ha detto niente. Si è tirato su come un bufalo e lì ho avuto paura. Eravamo pronte tutte e due. Zampillava. Poi è andato giù. Eravamo nude. Letizia aveva una macchia sulla gamba. Io ero pulita. Abbiamo tenuto sotto controllo la scena fino all’ultimo. Avevo il suo schifosissimo sapore in bocca. Non volevo che restasse nessun segno. Gli ho versato l’Ace tra le gambe. Non volevo che restasse la mia saliva, o le mie cellule di lingua. Abbiamo infilato i coltelli in una pentola e gli abbiamo versato sopra Omino verde.
Non avevamo toccato nulla e non ci eravamo tolte mai i guanti, anche se erano da cambiare. Ma ne avevamo un paio nuovo. Prima di uscire abbiamo cosparso nella sua camera tinello cucinino bagno tutti i detersivi che abbiamo trovato. Abbiamo fatto una poltiglia. Erano passati solo una trentina di minuti. Dovevamo andare a farci vedere sul corso.
Non c’era nessuno per le scale. Il vero problema era di non farsi vedere.
Per fortuna pioveva. Avevamo una sciarpa che ci copriva praticamente la faccia. Ci siamo nascoste sotto l’ombrello. In quel postaccio non c’era nessuno. Ci siamo divise. Avevo io tutta la roba da buttare, cioè i guanti.
Li ho buttati in un cassonetto, lontano. Ci siamo ritrovate a casa mia.
Abbiamo fatto la doccia, ci siamo conciate da strafighe e dieci minuti dopo abbiamo fatto il solito defilé sul corso.
Però lo sentivamo, era finita. Il mondo faceva schifo lo stesso, come prima. Mia mamma continuava a prendere i suoi ettolitri di Minias, En, Serenase eccetera. La prof di italiano dopo un po’ ha smesso di dire cazzate però non aveva nient’altro da dire. Il gioco era finito. Nonostante la gente si fosse infervorata al nuovo gioco, era giunto il momento di toglierglielo. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi tutto sarebbe tor nato a qualche forma di rassegnata normalità. Sarebbero tutti tornati ad essere quei morti che erano. Mica puoi ammazzare metà della popolazione perché l’altra metà si senta viva. Se vuoi una cosa è cambiata. Ho davvero capito cosa farò nella vita: la matematica. E anche che mi sono stufata di fare arrapare tutti sul corso. Fine della nostra prima classe nella scuola della vita. Avevamo un diploma ma non c’era il lavoro corrispondente se non quello di andarsene da quel posto.
Il mio unico gioco è diventato quello di farmi tutto il libro di geometria di mio fratello che fa le superiori ma senza guardare come si dimostrano i teoremi. Ci voglio arrivare da sola. Finora ci sono riuscita. Sono al ventisettesimo teorema. Poi ho preso un altro centimetro. Poi ancora mi sono comprata un libro di matematica nuovo. Passavo i miei pomeriggi a leggerlo. Anche le sere e le notti. Mia mamma rompeva sempre: «Ma non ti guardi la televisione?».
Non avevo più voglia di uscire. Così, di colpo, ho visto che è bastato un metro di una strada nuova ed è come se avessi già fatto dieci chilometri.
Letizia non diceva niente. Ogni tanto la pensavo ma ero confusa. Però avrei voluto che anche lei venisse con me. Quando facevamo l’amore io non smette vo di pensare. Pensavo alla matematica e vedevo la mia strada e la sua. Che me ne sarei andata il più presto possibile e che lei sarebbe rimasta a fare magari l’impiegata, e alla fine chissà. Letizia si vedeva che soffriva. Mi mandava i soliti sms vuoti, ma uno dopo l’altro. Non mi veniva voglia di rispondere. Veniva a studiare a casa mia ma non riusciva a studiare. Voleva solo che la baciassi, che lo facessimo sempre. Ma io più me lo chiedeva e più avevo voglia di studiare. Se io studiavo lei sbuffava e diventava triste. Non sopportavo la sua tristezza. Facevo finta di no ma era finita. Poi un giorno gliel’ho detto. Non potevo neanche guardarla in faccia. Volevo andare lontano. Ho detto a mia mamma che avrei fatto il concorso per avere una borsa di studio da qualche parte. Passavo le mie giornate a studiare tutto. Non solo matematica. Ero diventata la super prima della classe. Letizia non stava neanche più nel mio banco. Stavo da sola.
Stavo benissimo.
Mi ha chiesto un appuntamento in pineta. «Alle quattro. Prima non posso, le ho detto». Mi è arrivato un sms vuoto alle due. Non ho risposto. Me ne ha mandato un altro alle tre. Non ho risposto. Non era nel solito posto, in pineta. Era sdraiata sulla riva, sui ciottoli. Da lontano si vedeva il sacchetto di plastica che faceva da specchio, come un vetro. L’ho chiamata.
Non ha risposto. Mi sono tolta le scarpe e ho camminato verso lei con i piedi nell’acqua. Aveva gli occhi aperti. Anche lei non aveva spento la luce. Si era spogliata. Voleva lasciare qualche dubbio, forse. Che anche lei fosse stata vittima del maniaco? Accanto però c’era una boccetta di Roipnol. Ho pensato: magari ha scritto tutto su un diario o ha un biglietto in tasca. Ho aperto il suo zaino. Sul suo diario solo sigle, le solite, che volevano dire qualcosa solo se lo sapevi. In tasca niente. Solo una foto di classe. Eravamo vicine. Non mi aveva tradito. Ho rifatto la strada verso casa. Adesso potevano venire da me. Non avevo niente da raccontare. Per il resto avevo solo tredici anni. E un dolore che potevo curare solo con la matematica.
Adesso ho ventisei anni. Insegno all’università: matematica. Sono sempre una strafiga. Sempre di più. Non mi sono sposata. Non mi sono neanche mai fidanzata.
Il mio campo d’indagine è quello dei fondamenti. La matematica non ha fondamenti, questa è la sua ferita che non si rimargina. Ho imparato dai matematici che si va avanti lo stesso, sulla via dell’imperfezione, spinti come insetti da una specie di istinto. Mi vengono i brividi a pensare che la questione dei fondamenti sia magari una questione di biologia e di leggi contingenti. Però non lo so e non credo che lo sapremo mai. Ogni tanto vado da un dottore, uno psicodottore. È innamorato di me e si arrampica sui vetri per dimostrarmi che c’è una soluzione a tutte le cose. Mi piace assistere all’inutilità dei suoi sforzi. Qualche volta mi viene voglia di fargli un regalo: andarci a letto. Sarebbe un regalo andarci a letto una sola volta? O due o tre? Comunque non riuscirò mai a fargli questo regalo.
In qualche modo Letizia ha vinto. Mi ha insegnato che devi avere il coraggio di fermarti in tempo e di non abituarti ad alzare la soglia del dolore così tanto da vanificare lo stesso concetto di dolore. È quello che mi è successo? Non so rispondere. Forse sta qui la questione dei fondamenti? Sapere dire di no? Non so rispondere. La verità è che non so rispondere a niente.
Se Letizia fosse viva vivrei con lei. Non sapendo niente cercherei di non sapere niente. Non andrei a caccia di fondamenti. Però, mentre dico queste cose mi rendo conto che non so esattamente quello che dico. Ho l’impressione di tirare un filo infinito. Non so cosa ci sia all’altro capo del filo. Passo il tempo che mi resta durante la giornata a tenere vi vo il ricordo. Non ho più nessun ritegno: parlo con lei, le spiego quello che faccio, la sgrido, le rispondo male, e poi le faccio tante coccole.
So che non la rivedrò più.
Mi sono comprata dei sacchetti di plastica trasparenti e nastro isolante nero, largo un centimetro appena. Come quello di Letizia. Non ho ancora le gocce. Ma quelle non ci vuole niente a trovarle, quando servirà. Devo solo abituarmi all’idea che non la troverò più, da nessuna parte. È per questo che sopravvivrò ancora per un po’ di tempo.


Thursday, December 4, 2025

Alessandro Chiantoni

  



Alessandro Chiantoni is 27 years old, lives in Bergamo, and began studying piano at the age of 6. Since then, music has always been a part of his life, and he has never abandoned it. He, therefore, owes a great deal to the piano and to his first conservatory teacher, Tiziana Moneta, who provided him with a solid foundation that he still relies on today. Alessandro himself says that he will never be able to thank her enough for believing in him from the start.


He began playing the organ at about 12 years old on his own; now, he has graduated from the three-year course in Organ and Organ Composition and completed the two-year course under the guidance of Simone Vebber, an excellent Organ teacher at the Bergamo Conservatory.


In 2020, he was appointed titular organist of the church of Sant'Anna in Bergamo, and to gain experience in the organ world outside of Italy, he has attended many courses with important foreign organists; this is fundamental because there is nothing like having direct experience of things to understand them and draw a lesson from them. He considers himself fortunate to be a musician and to play for others, but at the same time, he is passionate about composition, as it is one of the ways he expresses himself. He has developed a passion for designing new instruments, including an organ that can be used for both study and concerts, a unique and innovative instrument with a completely different concept compared to the instruments currently present in our territory.


He was named the best student of the 2020 Masterclass. It was a fantastic course during which he met excellent organists, of whom he says: "I was thrilled to be the best, but the others were certainly no less. It was a wonderful experience that enriched me from both a musical and human perspective, where Art was at the center of everything. I am delighted to have been invited to Costa Valle Imagna this year and to have the opportunity to be able to express myself on such a beautiful organ."


To achieve these results, he says, "You have to be serious, with yourself and with others, be constant in studying, and never spare yourself to overcome your limits finally. When studying music, you must have discipline; otherwise, you will waste many hours without achieving results. It is not easy, but it is necessary; it is something you learn in the conservatory because, without seriousness and method, it is impossible to complete your studies. With the organ in particular, you always have to question yourself; each instrument is different in many characteristics, and each time, the organist has to adapt to the instrument itself, which becomes the most important teacher; for this reason, when you study, you always have to listen to yourself with a critical ear and adapt what you are doing to the instrument you are playing and the acoustics where it is located." He studied with Jean-Baptiste Monnot, thanks to whom he developed self-awareness and the ability to express his ideas with strength, even in music. Always from his words, "This becomes the key to overcoming the technical and expressive difficulties of the songs. Music never comes from outside but is born from within the human soul, and we must find the right way to express it. We live in a world where we call "art" anything that generates an immediate sensation in us; in reality, authentic Art is the fruit of a conflict that a sensitive soul translates, not without effort, into an interior artistic act. Awareness is the engine that drives the artist to find a way to express their interiority, and this arises from a personal need. Not all musicians are artists because playing notes all in a row does not constitute Art if those notes come from nothing and do not communicate anything."


I propose a video that illustrates the difficulty of playing this type of organ to be broadcast live in streaming on August 27, 2020. Bergamo was the Italian city most affected by the Coronavirus, so Alessandro Chiantoni organized a live concert in the church of Sant'Anna, entirely dedicated to improvisational Art. Alessandro proposes some improvisations in different styles to the wonderful organ built by the Serassi brothers.


Alessandro Chiantoni

 


Alessandro Chiantoni ha 27 anni, abita a Bergamo e ha iniziato a studiare pianoforte a 6 anni, da quel momento la musica ha sempre fatto parte della sua vita e non lo ha mai abbandonato. Deve molto dunque proprio al pianoforte e alla sua prima insegnante di conservatorio: Tiziana Moneta, che gli ha dato delle solide basi su cui fa affidamento ancora oggi; lo stesso Alessandro dice  che non la ringrazierà mai abbastanza per aver creduto in lui fin da subito. 

Ha iniziato a suonare l’organo circa a 12 anni per conto proprio, ora si è diplomato al triennio di Organo e Composizione Organistica e ha concluso il Biennio sotto la guida di Simone Vebber, meraviglioso docente di Organo al conservatorio di Bergamo. 
E' stato nominato nel 2020 organista titolare della chiesa di Sant’Anna in Bergamo e per poter fare esperienza del mondo organistico fuori dall’Italia, ha frequentato molti corsi con importanti organisti esteri; ciò è fondamentale perché non c’è nulla come fare esperienza diretta delle cose per comprenderle e trarre da esse un insegnamento. Si ritiene felice di essere un musicista e di suonare per gli altri, ma al tempo stesso lo appassiona la composizione, poiché è uno dei modi che ha per esprimersi. Ha affinato una passione per la progettazione di nuovi strumenti, tra i quali c’è anche un organo da poter sfruttare tanto per lo studio quanto per i concerti; uno strumento particolare ed innovativo, di concezione totalmente diversa rispetto agli strumenti attualmente presenti nel nostro territorio.

E' stato nominato il miglior allievo della Masterclass 2020. Un corso fantastico durante il quale ha conosciuto organisti molto bravi, del quale dice: "sono stato molto felice di risultare il migliore, ma gli altri non erano sicuramente da meno. E’ stata un’esperienza molto bella che mi ha arricchito dal punto di vista musicale e umano, nella quale l’arte è stata al centro di ogni cosa. Sono molto felice di essere stato invitato a Costa Valle Imagna quest’anno ed avere la possibilità di potermi esprimere su un organo così bello."

Per ottenere questi risultati afferma "bisogna essere seri, con se stessi e con gli altri, essere costanti nello studio e non risparmiarsi mai per poter infine superare i propri limiti. Nello studio della musica bisogna avere disciplina altrimenti si sprecano molte ore senza raggiungere i risultati. Non è semplice ma è necessario, è una cosa che si impara in conservatorio, poiché senza serietà e metodo è impossibile portare a termine gli studi. Con l’organo in particolare ci si deve mettere sempre in discussione, ogni strumento è diverso in molteplici caratteristiche e ogni volta l’organista deve adattarsi allo strumento stesso, il quale diventa il professore più importante, per questo quando si studia bisogna sempre ascoltarsi con orecchio critico e adattare ciò che si sta facendo allo strumento che si sta suonando e all’acustica ove esso si trova."

Ha studiato con Jean-Baptiste Monnot, grazie al quale ha appreso è la consapevolezza di se stesso e delle proprie idee, anche nella musica, per esprimerle con forza. Sempre dalle sue parole "Diventa questa la chiave per superare le difficoltà tecniche ed espressive dei brani. La musica non viene mai da fuori, ma nasce da dentro l’animo umano e bisogna trovare il giusto modo per esprimerla. Viviamo in un mondo in cui chiamiamo “arte” qualsiasi cosa generi in noi una sensazione immediata, in realtà l’Arte autentica è il frutto di un conflitto che un’anima sensibile traduce, non senza fatica, in un atto artistico interiore. La consapevolezza è il motore che muove l’artista a trovare la strada per esprimere la sua interiorità e ciò nasce da un’esigenza personale. Non tutti i musicisti sono artisti perché suonare le note tutte in fila non costituisce arte se quelle note nascono dal nulla e non comunicano nulla."

Vi propongo un bel video in cui si può capire la difficoltà nel suonare questo tipo di organo. Esibizione trasmessa in live streaming il giorno 27 ago 2020. Bergamo è stata la città italiana più colpita dal Coronavirus, così Alessandro Chiantoni ha organizzato un concerto live nella chiesa di Sant'Anna, interamente dedicato all'arte improvvisativa. Alessandro propone al meraviglioso organo costruito dai fratelli Serassi alcune improvvisazioni in stili differenti. 

Alessandro Chiantoni

  



Alessandro Chiantoni ist 27 Jahre alt, lebt in Bergamo und begann im Alter von 6 Jahren Klavier zu lernen. Seitdem war die Musik immer ein Teil seines Lebens und hat ihn nie verlassen. Daher verdankt er dem Klavier und seiner ersten Konservatoriumslehrerin Tiziana Moneta viel. Sie vermittelte ihm eine solide Grundlage, auf die er sich noch heute stützt. Alessandro selbst sagt, er könne ihr nie genug dafür danken, dass sie von Anfang an an ihn geglaubt habe.

Mit etwa 12 Jahren begann er selbstständig Orgel zu spielen, inzwischen hat er den dreijährigen Kurs in Orgel und Orgelkomposition abgeschlossen und den zweijährigen Kurs unter der Leitung von Simone Vebber, einer wunderbaren Orgellehrerin am Konservatorium Bergamo, beendet.

Im Jahr 2020 wurde er zum Titularorganisten der Kirche Sant'Anna in Bergamo ernannt und um Erfahrungen in der Orgelwelt außerhalb Italiens zu sammeln, besuchte er zahlreiche Kurse bei bedeutenden ausländischen Organisten; Dies ist von grundlegender Bedeutung, da es nichts Besseres gibt, als Dinge direkt zu erleben, um sie zu verstehen und aus ihnen zu lernen. Er ist glücklich, Musiker zu sein und für andere zu spielen, doch gleichzeitig komponiert er leidenschaftlich gern, da dies eine der Möglichkeiten ist, sich auszudrücken. Er hat eine Leidenschaft für das Entwerfen neuer Instrumente entwickelt, darunter eine Orgel, die sowohl zum Lernen als auch für Konzerte verwendet werden kann; ein besonderes und innovatives Instrument mit einem völlig anderen Konzept als die derzeit in unserem Gebiet vorhandenen Instrumente.

Er wurde zum besten Studenten der Meisterklasse 2020 gekürt. Ein fantastischer Kurs, bei dem er sehr gute Organisten kennenlernte, von denen er sagt: „Ich war sehr glücklich, der Beste zu sein, aber die anderen waren sicherlich nicht weniger. Es war eine sehr schöne Erfahrung, die mich musikalisch und menschlich bereichert hat und bei der die Kunst im Mittelpunkt von allem stand. Ich bin sehr glücklich, dieses Jahr nach Costa Valle Imagna eingeladen worden zu sein und die Möglichkeit zu haben, mich an einer so schönen Orgel auszudrücken.“

Um diese Ergebnisse zu erzielen, sagt er, „muss man es ernst meinen, mit sich selbst und mit anderen, konsequent im Studium sein und sich nie schonen, um schließlich seine Grenzen zu überwinden. Beim Musikstudium ist Disziplin erforderlich, sonst vergeudet man viele Stunden, ohne Ergebnisse zu erzielen. Es ist nicht einfach, aber notwendig. Das lernt man am Konservatorium, denn ohne Ernsthaftigkeit und Methode ist es unmöglich, das Studium abzuschließen. Insbesondere bei der Orgel muss man sich immer selbst hinterfragen. Jedes Instrument hat viele verschiedene Eigenschaften, und der Organist muss sich jedes Mal an das Instrument selbst anpassen, das zum wichtigsten Lehrer wird. Deshalb muss man beim Studium immer kritisch auf sich selbst hören und sein Handeln an das Instrument, das man spielt, und die Akustik an seinem Standort anpassen.“

Er studierte bei Jean-Baptiste Monnot, bei dem er lernte, sich seiner selbst und seiner eigenen Ideen bewusst zu werden und sie auch in der Musik kraftvoll zum Ausdruck zu bringen. Er selbst sagt immer: „Dies ist der Schlüssel zur Überwindung der technischen und ausdrucksstarken Schwierigkeiten der Lieder. Musik kommt nie von außen, sondern entsteht im Inneren der menschlichen Seele, und wir müssen den richtigen Weg finden, sie auszudrücken. Wir leben in einer Welt, in der wir alles als „Kunst“ bezeichnen, was eine unmittelbare Empfindung in uns hervorruft. In Wirklichkeit ist authentische Kunst die Frucht eines Konflikts, den eine sensible Seele nicht ohne Anstrengung in einen inneren künstlerischen Akt umsetzt. Bewusstsein ist der Motor, der den Künstler dazu bewegt, einen Weg zu finden, sein Innerstes auszudrücken, und dies entspringt einem persönlichen Bedürfnis. Nicht alle Musiker sind Künstler, denn das Spielen von Noten in einer Reihe ist keine Kunst, wenn diese Noten aus dem Nichts kommen und nichts mitteilen.“

Ich schlage Ihnen ein schönes Video vor, in dem Sie die Schwierigkeiten beim Spielen dieser Art von Orgel verstehen können. Aufführung im Live-Streaming am 27. August 2020 übertragen. Bergamo war die am stärksten vom Coronavirus betroffene italienische Stadt, daher organisierte Alessandro Chiantoni ein Live-Konzert in der Kirche Sant'Anna, das ganz der Improvisationskunst gewidmet war. Alessandro schlägt einige Improvisationen in verschiedenen Stilen zur wunderbaren Orgel der Brüder Serassi vor.

Friday, November 28, 2025

Il fascino dei personaggi imperfetti - Eleanor Oliphant

 

Il fascino dei personaggi imperfetti

 

Eleanor Oliphant e il coraggio di ricominciare

 

di Elisa Rubini

 

 



 

Ci sono persone che non urlano, ma resistono in silenzio.

Che non si impongono, ma lasciano tracce profonde proprio perché non cercano di farsi notare. Eleanor è così.

Non chiede niente al mondo, eppure la sua presenza lo mette a nudo.

 

Dietro il suo ordine meticoloso si nasconde la fatica di chi ha imparato a sopravvivere. Ogni gesto preciso, ogni abitudine ripetuta è un modo per tenere insieme i pezzi.

A volte sembra distante, ma in realtà ascolta tutto, osserva tutto.

E proprio in questo sguardo controllato si intravede la crepa da cui entra la vita.

 

 

Le sue contraddizioni

 

C’è in lei una forza tranquilla, una resistenza che nasce dal dolore.

Eppure quella stessa forza è anche una gabbia: la spinge a tenere il mondo lontano, a fidarsi solo del silenzio.

Vorrebbe essere come gli altri, ma non sa più come si fa.

Così si rifugia nella solitudine, dove almeno non deve fingere.

 

Poi, all’improvviso, la realtà si insinua con la semplicità di un gesto gentile. Qualcuno la vede davvero, senza giudicare, e da quella piccola attenzione inizia qualcosa di nuovo.

Non è un cambiamento spettacolare, ma lento, umano, reale.

È il coraggio di restare quando sarebbe più facile fuggire.

 

Cosa ci insegna la sua fragilità

 

Eleanor mostra che la fragilità non è debolezza, ma un modo per conoscere sé stessi.

Le ferite non si cancellano, ma possono diventare mappe.

Le sue crepe raccontano una verità che appartiene a tutti: non serve essere forti, basta avere la forza di non arrendersi.

 

Ci ricorda che a volte basta poco per ricominciare: una parola, una presenza, un sorriso sincero.

Che il dolore non va nascosto, ma attraversato.

E che anche chi sembra chiuso nel proprio mondo, in realtà, sta solo aspettando che qualcuno bussi con delicatezza.

 

La lezione che resta

 

Forse ci riconosciamo in lei perché abbiamo tutti una parte che si nasconde dietro la normalità.

Una parte che si sente fuori posto, che teme di non essere abbastanza, ma che continua a provarci.

Eleanor insegna che la vita non si aggiusta di colpo: si ricuce piano, un pezzo alla volta.

 

Le imperfezioni non ci allontanano dagli altri, ci rendono veri.

E ci ricordano che dietro ogni corazza c’è solo il desiderio più semplice di tutti: essere visti, e finalmente, capiti.

 

Tuesday, November 25, 2025

A Life to Live To the Fullest - Interview by Maria Teresa De Donato

 

Elena Franconi:

A Life to Live To the Fullest


Interview by Maria Teresa De Donato

 

 




Dear friends,

 

Today I'd like to introduce you to Elena Franconi, a theater actress and playwright who leads theatrical workshops for children and adults.

 

We've previously discussed theater on this Blog and in Virtual Cultural Salon. Still, as we'll see, Elena's work is very unique: it draws inspiration from the philosophy of Professor Stefano Mancuso—an Italian neuroscientist and essayist, and Professor of General Arboriculture and Plant Ethology at the University of Florence—as well as the gentle language of poets such as Chandra Candiani and Mariangela Gualtieri.

 

You are all invited to continue reading this article to learn more not only about Elena, but also, and above all, about her theater work and the goals she aims to achieve through it.

 

 


 

MTDD: Hello Elena, and welcome to this cultural salon of mine. It's a pleasure to have you as my guest.

 

EF: It's a pleasure to be your guest, Maria Teresa.

 

 

MTDD: Before speaking about your theatrical activity, Would you like to briefly introduce yourself to our readers and tell us a little about yourself?

 

EF: Yes, of course, it’s a pleasure. I'm a woman, an adult, autonomous, and independent. I'm also very distracted and playful. I have two grown children, Walter, 34, and Giulia, 29, who are my treasures and of whom I'm very proud. I've always had a great interest in civic engagement, which is why, while in search of a job that would guarantee me a specific financial stability, I studied, entered public competitions, and began working in public administration. This allowed me to actively participate in the common good actively, organizing and providing public services for all. At the same time, I threw myself headlong into the study of the performing arts and writing, and for over 25 years I've been performing and writing for the theater. My life unfolds along two parallel lines that share a common thread: civic and social engagement, as well as caring.

 

 

MTDD: Would you like to tell us about your theatrical production?

 

EF: As you mentioned, I'm an author and actress. Some of my shows, in addition to being performed in various theaters, have been performed in alternative venues. For example, "A Steady Job Wanted," a show addressing workplace stability, was performed in a tannery and conference rooms. "68x15 A Matter of Conscience," a show about '68 and the collective and individual awakening of consciousness, and "Pulsatilla," a monologue about the relationship between a mother and her teenage daughter, have also been performed in schools. "Moi pour Toi," about the life of Edith Piaf, was performed for the Ex-it danza T company in Livorno. "Whatever The Cost," a performance by the Paese Novo district of Pomarance, was performed at the 47th edition of the Palio di Pomarance.

 

 

MTDD: I'd like to thank you for the videos you sent me. They helped me better understand your work and its goals. I would describe your theatrical performances in Nature as highly symbolic, evocative, and engaging.

 

Would you agree?

 

EF: You're talking about ART: in teATRo e in naTuRa, the theatrical research and experimentation laboratory in Nature, founded in 2021, when being with people indoors was highly complicated and Nature was a place full of life and possibilities—my passion. I began holding theater workshops in the woods and meadows, engaging all the senses through active listening and observing the plant and animal world to discover their differences and similarities with humanity, as well as the richness of sounds, smells, and transformations. The same place can completely change its appearance from one week to the next, and each time, the landscape is highly evocative and captivating, offering ever-new ideas for the workshop, research, and an inclusive and immersive experience in Nature.

 



 

MTDD: While watching your videos, I took note of some lines recited by the actors and actresses or commented on by you as a voiceover. Taking this opportunity, I'd like to delve deeper, starting with the following:

 

"The lake... its stillness is not stagnation... but waiting...

 

Its waters are like a mirror... It's like the mind...

 

Outside of here... everything is fast...

 

Outside of here... it's all noise..."

 

 

EF: The texts accompany the performers' actions or the suggestions of the environment; they're like captions to a painting. Some are taken from books, like the first two lines you quoted, which are mentioned in the publication "You Will Find More In the Woods" by Francesco Boer. I wrote the other two lines at the end of the performance to remind all of us of what happens outside the woods, outside the experience that has just ended. In Nature, there is silence, slowness, listening; outside of here, however, everything is fast, all is noisy.

 

 

MTDD: Theatrical texts are significant and metaphorical, and even the movements and clothing play a crucial role as they take us all back in time, seemingly to the era of Celtic rites, and in any case to an era in which Man and Nature were one, inseparable and indispensable—a union that, especially in recent decades, seems to have been lost.

Considering that the color white has a specific meaning in every culture, What meaning did you attribute to it in using it in the video shot in the woods?

 

EF: Thank you, Maria Teresa, for your kind words. I'm so happy you're getting all these suggestions; in fact, there's no precise answer; everyone sees and feels based on their knowledge, experience, and sensibilities. Regarding the color white, my answer might surprise you for its simplicity: amidst all that green, white stands out; it's a point of attraction. The eye easily locates and follows the performer, and white has no particular connotation, leaving room for imagination. I'll let you in on a secret: over the years, white has become the color of ART: in the theater and Nature. We always dress in white, cream, or similar shades.


 



 

MTDD: The second video I watched, filmed in Treggiaia, in the garden of an ancient church surrounded by the breathtaking landscape of your beautiful land, the narrator says:

 

"All around there is such an abundance of greenery that it would bring peace to the most damned heart. ..."

 

 

As a Naturopath, I fully agree with this thought and believe that many problems, not only physical, but also and above all psychological and mental, can arise precisely from the estrangement that has existed between Human Beings and Nature and from our consequent immersion in a highly materialistic and consumerist society that has alienated many people. This would lead to a much broader discussion that should include not only health and well-being, but also sociological and psychological aspects.

To stick to our topic, let's focus on aspects related to Health and Well-Being and the vision of Nature not as a "stepmother," as Giacomo Leopardi saw it, but rather as a "mother" who loves us, protects us, and communicates with us in her way. It's up to us to rediscover and grasp its meaning.

 

EF: Being in Nature is good for us. Standing before a green meadow full of daisies, an olive grove, or a chestnut forest, we take a deep breath and release tension. It's not just me saying it; we all experience it, and now science is saying it too. You're undoubtedly aware of the research being conducted by the CNR (National Research Center) on forest therapies (forest bathing), on the beneficial effects of spending hours immersed in fir or beech forests. And these benefits aren't just for reducing stress and anxiety, which is no small thing, but also for the respiratory, cardiovascular, and immune systems. Plants release volatile substances, such as monoterpenes, which have antibacterial and anti-inflammatory properties that we inhale, thereby improving our health. Human-built habitats, made of concrete, asphalt, and gray, have uprooted us from Nature. We have forgotten that WE ARE NATURE, we are not separate, we are not aliens but part of the whole, and by reconnecting, we can find peace and answers to our doubts and fears.

 

 

MTDD: Modernity, materialism, and excessive consumerism have alienated us so much that many of us can no longer see Nature as a Living Being. They have sadly and paradoxically relegated it to the role of a "Thing," an everyday object to be used and abused at will.

Some lines recited in your second video are worth analyzing because they can help readers become aware of a completely different "vegetal" reality:

 

"When trees are wounded, they shed tears..."

Nature can be trusted, "but it takes patience and an open heart."

 

 

Would you like to elaborate on these concepts?

 

EF: Trees, like us, are equipped with all five senses, and beyond that, they have about fifteen more. They have different ways of expressing them than we do. For example, plants' "smells" are like our words. Through their smells, they communicate with each other, sending messages of danger and attraction. We're unable to understand many of their meanings, but that doesn't mean they don't express themselves, that they don't feel love, pain, hunger, the need for light, and so on. The fact that they're so different from us doesn't make them worse. Indeed, considering the multitude of plants on earth, and considering that in Nature, the fittest doesn't win, but rather the best, and that it's quantity that determines who's most fitting, we can affirm that they are by far worth taking as an example and not treating them as insignificant beings. We can learn a lot from them: how to connect, how to be with ourselves, how to care for one another, how to listen, how to give space, how to redefine priorities. However, it requires patience, an open heart, and the willingness to learn another language.

 

 

MTDD: Your third video, which, like the previous ones, summarizes what ART, your laboratory of theatrical research and experimentation in Nature, represents, encourages introspection and self-analysis.

I found the following messages particularly significant:

 

"It's hard to feel different... Yet it's sadder to conform..."

 

"What aspects of plants can inspire different perspectives and different human and social attitudes?"

 

 

Going against the grain has never been easy, yet every actual change has come about precisely thanks to someone who dared to act 'differently', standing out from the crowd.

 

There's a lot to say on these points.

 

EF: The video you're referring to was the first recollection of an ART workshop. It was 2022, a workshop that began in the spring and ended in early July. The longest, lasting four months. A magical experience that kicked it all off, and which I lived with so much enthusiasm on the one hand and so much fear of failure on the other, of doing something so different and incomprehensible that it wouldn't be appreciated and welcomed by people. I remember the Saturday we arrived after a lovely walk to the spot where we usually held the workshop. It was spring, and that day, the pollen swirled in the air like a whirlwind of white wool; it looked like snow was falling. We were all so excited and captivated, and we started dancing. We and Nature, in one motion through space and time. Beautiful! I realized that, for that alone, it was worth doing; I didn't have to worry about the audience's judgment, but about the active and shared participation of the performers (obviously, in spring, those with allergies are not allowed to participate in the workshops).

Diversity is a fundamental element of ART. Plants are profoundly different from us, biologically speaking. They are sessile, rooted beings; we are nomads, constantly on the move. They can't move, but we can (and we struggle to stay still). If we learned from them that they are so different from us, perhaps we would be able to view the diversity between ethnic groups, peoples, and cultures as an opportunity for exchange and knowledge, rather than as a threat to defend ourselves from.

 

 

MTDD: "We flee from the shadows... in search of the light..." and "Anchored in the earth, we listen to our most microscopic internal movements. No one gives orders. Everything acts in resonance" are both meaningful statements.

 

Do we want to explore these concepts further so that our readers are not only left with a positive message, but also one that encourages them to become more aware and make a U-turn when needed?

 

EF: Light is the primary source of energy for plants. It is nourishment. It is life. Have you seen how the tree trunks shoot upward toward the sky? They don't do it to compete but to feed and grow. Roots, on the other hand, shun this and live underground, invisible to the naked eye. Roots travel underground in many directions and encounter one another, weaving relationships. The underground world, currently a subject of great interest to scientists and yet so foreign to us, opens our imagination to a sense of possibility. The stems that rise upward, the roots that sink downward; in between, there is sap, trunk, leaves, resins. A tree has a crown of branches, a trunk, and roots; a human being has a head, a trunk, limbs, and skin. Metaphorically, there is a similarity; let's try to imagine ourselves alongside them, but there is also a huge, huge difference. Plants don't have a brain or specialized organs like humans; they don't have lungs, nor do they have a heart. Plants have a modular structure, consisting of many small, autonomous parts that interact with each other; none commands the others, and none gives orders. Try to imagine a world where all living beings communicate and make shared decisions, not waiting for someone to decide for them. Impossible? I don't think so. Complex, yes, very complex indeed.

 

 

MTDD: Before concluding our interview, Elena, can you tell us how those who wish to follow or even participate in your activities can contact you?

 

EF: Here are my contact details:

elenafranconi http://www.youtube.com/@elenafranconi

 

franconielena@gmail.com

 

elena_francon http://instagram.com/elena_francon

 

franconielena http://facebook.com/elena.franconi1

 

 

MTDD: Thank you, Elena, for participating in this interview and for sharing with us the goals of your theater work and workshops you lead. Thank you also to all the actors and actresses who took part. I hope to have you as my guest again in the future.

 

EF: Thank you for this fantastic opportunity and for the fascinating questions that have given me the chance not only to tell you, but also to reflect further on what I do and its meaning. And every time I find that there is meaning, and that's very important to me because I often find little of it around me.

I'll be happy to talk to you again. Thank you again, and I wish you the best regards and continued success. Elena




All photos in this article: Elena Franconi ©2025. All Rights Reserved.