Thursday, December 18, 2025

Maurizio Cazzati

 



He was born in Luzzara, Reggio Emilia, to Francesco and Flaminia and was baptized there on March 1, 1616. We know nothing about his musical education, nor is it known where he completed his seminary studies to obtain his ordination as a priest. In 1641, when he published his first work, he declared himself organist and choirmaster of the Basilica of S. Andrea in Mantua; shortly after, in 1647-48, he was listed as master of chamber music for the Duke of Sabbioneta and Bozzolo. At the end of 1648, he was appointed choirmaster of the Accademia della Morte in Ferrara, where he remained until 1652, to take up the same position at S. Maria Maggiore in Bergamo; he remained there until April 25, 1657, to return to Ferrara for only a few months, since on August 31, 1657, he was elected choirmaster at S. Petronio in Bologna.

During this last assignment, the longest of his career (lasting fourteen years), he carried out an intense creative activity, publishing numerous compositions (from op. XIX to LVIII) and profoundly influencing the structure and activity of the Petronian chapel; shortly after his election he obtained to take upon himself the choice of the vice-master and at the same time had all the members of the chapel dismissed (except for the two organists); seven days later he had it established that the palace musicians should no longer be borrowed, due to their bad habit of abandoning the functions in the basilica early. At the beginning of the following year, the chapters to be observed having been established, on January 16, 1658, the musicians were gradually rehired, evidently according to a selection and a program desired by Cazzati, to arrive on September 6. 1658, to the definitive reorganization of the chapel, whose staff was set at four sopranos, six contraltos, six tenors, six basses, two violins, two alto-violas, two tenor-violas, two trombones, a violoncello, a contrabasso violone grosso, a theorbo, two organists.

Particularly significant of the impetus brought by Cazzati to the activity of the chapel is the exceptional increase undergone by the musical preparation for the annual patronal feast of S. Petronio (October 4): before his arrival, the participation of foreign or extraordinary musicians ranged in number from ten to twenty with an expense usually less than fifty lire; already in 1657, therefore a few months after the appointment, these temporary performers amount to twenty-four for the cost of 109 lire, but in 1658 they become sixty-eight (for 756.15 lire), while in the two following years the expense grows out of all proportion, motivated in large part by the engagement of soloists and related travel, food and lodging expenses. From 1661 and until the end of his mandate, the cost will remain approximately within the limits reached in 1658.

Having requested and obtained permission on June 27, 1671, from the vestries of the Bolognese basilica, Cazzati returned to Mantua to assume the direction of the chapel and chamber music of Duchess Anna Isabella; in this office, he ended his existence at the end of September 1678 (as is evident from the letter of his executor, Giovanni Furlani, to the vestries of S. Petronio dated January 20, 1679, in which he communicated the legacy to the same basilica of "twelve large leather books to Palestrina").

It cannot be said that the figure of Cazzati has so far met with much favor among scholars of the Baroque era's musical history. The main difficulty in achieving a sufficient overall vision of his work undoubtedly lies, on the one hand, in the truly unusual quantity and, on the other, in the great variety of genres, forms, and sound structures. And if the great quantity usually predisposes unfavorably for a qualitative judgment, on the work of Cazzati, the echo of the unfortunate polemic raised against him by Giulio Cesare Arresti seems to weigh even more. It would, however, be desirable to see an accurate study undertaken soon on this musician, whose undoubted historical importance - especially about the Bolognese school - has already been intuited by more than one historian.

Maurizio Cazzati



Nacque a Luzzara (Reggio Emilia), da Francesco e Flaminia e venne ivi battezzato il 1°marzo 1616. Non sappiamo nulla sulla sua formazione musicale, né si conosce dove abbia compiuto gli studi di seminario per conseguire la consacrazione sacerdotale. Nel 1641, pubblicando la sua opera prima, si dichiara organista e maestro di cappella della basilica di S. Andrea a Mantova; poco dopo, nel 1647-48, risulta maestro della musica di camera del duca di Sabbioneta e Bozzolo. Alla fine del 1648 veniva nominato maestro di cappella dell'Accademia della Morte a Ferrara, dove rimase fino al 1652, per assumere l'analoga carica a S. Maria Maggiore a Bergamo; vi rimase fino al 25 apr. 1657, per tornare a Ferrara soltanto per pochi mesi, poiché il 31 ag. 1657 era eletto maestro di cappella a S. Petronio a Bologna.

Durante quest'ultimo incarico, il più lungo della sua carriera (essendo durato quattordici anni), egli svolse un'intensa attività creativa, dando alle stampe numerosissime composizioni (dall'op. XIX alla LVIII) e incidendo profondamente sulla struttura e l'attività della cappella petroniana; poco dopo la sua elezione infatti egli otteneva di avocare a sé la scelta del vicemaestro e faceva contemporaneamente licenziare tutti i membri della cappella (ad eccezione dei due organisti); sette giorni più tardi faceva stabilire di non prendere più a prestito i musici di palazzo, per il malvezzo che avevano di abbandonare innanzi tempo le funzioni nella basilica. All'inizio dell'anno successivo, stabiliti, il 16 gennaio 1658, i capitoli da osservarsi, i musicisti vennero via via riassunti, evidentemente secondo una selezione ed un programma voluti dal Cazzati, per giungere il 6 sett. 1658 alla riorganizzazione definitiva della cappella, il cui organico venne fissato in quattro soprani, sei contralti, sei tenori, sei bassi, due violini, due alto-viola, due tenor-viola, due tromboni, un violoncino, un contrabasso violone grosso, un tiorba, due organisti.

Particolarmente significativo dell'impulso recato dal Cazzati all'attività della cappella è l'eccezionale incremento subito dall'allestimento, musicale per l'annuale festa patronale di S. Petronio (4 ottobre): prima del suo arrivo, la partecipazione di musicisti forestieri o straordinari oscillava nel numero dai dieci ai venti con una spesa di regola inferiore alle cinquanta lire; già nel 1657, quindi a pochi mesi dalla nomina, tali esecutori avventizi assommano a ventiquattro per la spesa di lire 109, ma nel 1658diventano ben sessantotto (per lire 756,15), mentre nei due anni successivi cresce a dismisura la spesa motivata in larga misura dall'ingaggio di solisti e relative spese di viaggio, vitto e alloggio. Dal 1661 e fino alla fine del suo mandato la spesa si manterrà all'incirca nei limiti toccati nel 1658.

Chiesta e ottenuta licenza il 27 giugno 1671 dai fabbriceri della basilica bolognese, il Cazzati tornò a Mantova per assumere la direzione della musica di cappella e di camera della duchessa Anna Isabella; in questo ufficio chiuse la sua esistenza alla fine di settembre 1678 (come risulta dalla lettera del suo esecutore testamentario, Giovanni Furlani, ai fabbriceri di S. Petronio in data 20 genn. 1679, nella quale egli comunicava il lascito alla stessa basilica di "dodeci libri alla Palest[r]ina grandi di cuoio").

Non si può dire che la figura del Cazzati abbia finora incontrato molto favore presso gli studiosi di storia musicale dell'età barocca. La difficoltà principale per realizzare una sufficiente visione complessiva della sua opera risiede senza dubbio, da una parte, nella quantità davvero inconsueta e, dall'altra, nella grande varietà di generi, forme e compagini sonore. E se la grande quantità di solito predispone sfavorevolmente per un giudizio qualitativo, sull'opera del Cazzati sembra per di più ancora pesare l'eco dell'infelice polemica suscitata contro di lui da Giulio Cesare Arresti. Sarebbe comunque augurabile vedere presto intrapreso un accurato studio su questo musicista, la cui indubbia importanza storica - soprattutto nei riguardi della scuola bolognese - è già stata intuita da più di uno storico.



Maurizio Cazzati

 

Er wurde in Luzzara (Reggio Emilia) als Sohn von Francesco und Flaminia geboren und dort am 1. März 1616 getauft. Über seine musikalische Ausbildung und auch wo er sein Seminarstudium abschloss, um die Priesterweihe zu erhalten, ist nichts bekannt. Im Jahr 1641, als er sein erstes Werk veröffentlichte, ernannte er sich zum Organisten und Chorleiter der Basilika S. Andrea in Mantua. Kurz darauf, 1647–48, war er Kammermusikmeister des Herzogs von Sabbioneta und Bozzolo. Ende 1648 wurde er zum Chorleiter der Accademia della Morte in Ferrara ernannt, wo er bis 1652 blieb, um dann eine ähnliche Position an der S. Maria Maggiore in Bergamo einzunehmen. Er blieb dort bis zum 25. April. 1657, um erst am 31. August für einige Monate nach Ferrara zurückzukehren. 1657 wurde er zum Chorleiter von S. Petronio in Bologna gewählt.

Während dieser letzten Aufgabe, der längsten seiner Karriere (sie dauerte vierzehn Jahre), übte er eine intensive kreative Tätigkeit aus, veröffentlichte zahlreiche Kompositionen (von op. XIX bis LVIII) und beeinflusste die Struktur und Aktivität der Petronian-Kapelle nachhaltig. Kurz nach seiner Wahl erhielt er tatsächlich das Recht, den Vizemeister zu wählen und ließ gleichzeitig alle Mitglieder der Kapelle (mit Ausnahme der beiden Organisten) entlassen. Sieben Tage später verfügte er, dass die Palastmusiker nicht mehr ausgeliehen werden dürften, da sie die schlechte Angewohnheit hatten, ihre Aufgaben in der Basilika vorzeitig zu verlassen. Zu Beginn des folgenden Jahres, nachdem die zu beachtenden Kapitel am 16. Januar 1658 eingerichtet worden waren, wurden die Musiker nach und nach wieder eingeführt, offenbar gemäß einer von Cazzati gewünschten Auswahl und einem von ihm gewünschten Programm, und sollten am 6. September eintreffen. 1658 erfolgte die endgültige Neuorganisation der Kapelle, deren Besetzung auf vier Soprane, sechs Altstimmen, sechs Tenöre, sechs Bässe, zwei Violinen, zwei Altbratschen, zwei Tenorbratschen, zwei Posaunen, ein Violoncello, einen Kontrabass, ein Violone grosso, eine Theorbe und zwei Organisten festgelegt wurde.

Besonders bezeichnend für den Impuls, den Cazzati der Aktivität der Kapelle gab, ist die außergewöhnliche Zunahme der musikalischen Vorbereitung für das jährliche Patronatsfest von S. Petronio (4. Oktober): Vor seiner Ankunft lag die Zahl der teilnehmenden ausländischen oder außergewöhnlichen Musiker bei zehn bis zwanzig, und die regelmäßigen Ausgaben beliefen sich auf weniger als fünfzig Lire. Bereits im Jahr 1657, also wenige Monate nach der Ernennung, belief sich die Zahl dieser Aushilfskünstler auf 24, was Kosten in Höhe von 109 Lire verursachte. Im Jahr 1658 stiegen ihre Zahl jedoch auf 68 (für 756,15 Lire), während in den beiden darauffolgenden Jahren die Kosten ins Unermessliche stiegen, was größtenteils auf die Verpflichtung von Solisten und die damit verbundenen Reise-, Verpflegungs- und Unterkunftskosten zurückzuführen war. Von 1661 bis zum Ende seiner Amtszeit blieben die Ausgaben ungefähr innerhalb der Grenzen von 1658.

Nachdem er am 27. Juni 1671 die Erlaubnis der Wächter der Bologneser Basilika beantragt und erhalten hatte, kehrte Cazzati nach Mantua zurück, um die Leitung der Kapelle und der Kammermusik der Herzogin Anna Isabella zu übernehmen. In diesem Amt beendete er seine Existenz Ende September 1678 (wie aus dem Brief seines Testamentsvollstreckers Giovanni Furlani an die Sakristei von S. Petronio vom 20. Januar 1679 hervorgeht, in dem er derselben Basilika das Vermächtnis von „zwölf großen Lederbüchern für Palest[r]ina“ mitteilte).

Man kann nicht behaupten, dass die Figur Cazzati bei den Gelehrten der barocken Musikgeschichte bisher große Anerkennung gefunden hätte. Die Hauptschwierigkeit, einen ausreichenden Gesamtüberblick über sein Werk zu gewinnen, liegt zweifellos zum einen in der wahrhaft ungewöhnlichen Menge, zum anderen in der großen Vielfalt an Genres, Formen und Klangstrukturen. Und wenn die große Quantität normalerweise zu einer ungünstigen Beurteilung qualitativer Werke führt, so scheint Cazzatis Werk zusätzlich durch das Echo der unglücklichen Polemik belastet zu sein, die Giulio Cesare Arresti gegen ihn erhoben hat. Es wäre jedoch wünschenswert, wenn bald eine gründliche Studie über diesen Musiker in Angriff genommen würde, dessen unbestrittene historische Bedeutung – insbesondere im Hinblick auf die Bologneser Schule – bereits von mehr als einem Historiker erahnt wurde.

Monday, December 15, 2025

Caro libro ti scrivo - Lettera al PRINCIPE ANDREJ (Guerra e Pace)

 

Caro libro ti scrivo

 

Lettera al PRINCIPE ANDREJ NIKOLÀEVIČ BOLKONSKIJ

(Guerra e Pace)

 

di Elisa Rubini

 



Caro principe Andrej,

 

Non è facile per me cominciare questa lettera. Ho riletto più volte le prime righe e le ho cancellate altrettante. Forse perché non è una lettera comune, non è diretta a un amico, né a una persona viva. È per lei, che appartiene a un tempo lontano, ma che da quando l’ho incontrata sulle pagine di Tolstoj non ha più smesso di camminarmi accanto.

 

Mi chiamo Elisa, e vivo in un secolo in cui la guerra non si combatte più con le spade. Non ci sono cavalli, né fucili, né bandiere che sventolano. Ma, creda a me, combattiamo lo stesso. Ogni giorno. Solo che le nostre battaglie sono dentro. Invisibili, silenziose, a volte crudeli. Si combattono nei pensieri, nel cuore, nel bisogno costante di sembrare forti anche quando non lo siamo.

 

Spesso mi viene in mente la scena di Austerlitz. Lei ferito, disteso a terra, il cielo sopra di sé. E quella sensazione di resa, di scoperta, di improvvisa lucidità. Quando si accorge che tutto ciò per cui aveva lottato – la gloria, l’onore, il riconoscimento – non vale niente di fronte all’immensità di quel cielo. Ogni volta che ci penso, sento un nodo allo stomaco. È come se per un attimo riuscissi a vedere anch’io quello che lei ha visto.

 

Mi piacerebbe dirle che oggi siamo diventati più saggi. Che abbiamo imparato qualcosa. Ma non è così. Ci siamo solo inventati altri modi per sentirci invincibili. Le nostre divise sono fatte di abiti eleganti, di profili curati sui social, di frasi studiate per sembrare migliori di ciò che siamo. Ci illudiamo che la vita sia una vetrina da tenere sempre pulita, e intanto ci svuotiamo dentro.

 

Forse lei non capirebbe questo mondo. O forse sì, e ne sarebbe solo più triste. Io, a volte, lo guardo con un misto di stanchezza e di tenerezza. Vedo persone correre, parlare, ridere a voce alta, ma con gli occhi persi altrove. E penso a lei, alla sua solitudine composta, a quel suo modo di cercare la verità anche quando faceva male.

 

Vorrei impararlo, quel modo. Riuscire a guardare le cose senza paura, anche quando mostrano il lato peggiore. Lei sapeva stare nel dolore senza lasciarsene divorare. Io, invece, quando la vita si fa dura, tendo a nascondermi. Eppure qualcosa, nelle sue parole, mi fa pensare che la pace non si trovi fuggendo, ma attraversando.

 

Lei ha conosciuto la perdita, il disincanto, il vuoto che resta dopo una grande illusione. E nonostante tutto ha continuato a cercare un senso, una luce, un gesto di bontà in mezzo al disordine del mondo. È questo che la rende così vivo, anche oggi. Non la sua nobiltà, non la sua uniforme, ma quella fragile ostinazione a credere che valga ancora la pena vivere.

 

Mi domando spesso cosa direbbe, se potesse vedere la nostra epoca. Forse resterebbe in silenzio, come fa chi ha già visto troppo. Forse si limiterebbe a osservare. La immagino in una piazza moderna, seduto su una panchina. La gente passerebbe di fretta, con le cuffie nelle orecchie e lo sguardo basso. Lei, invece, guarderebbe verso gli alberi. Noterebbe il vento che muove le foglie, il bambino che trascina il suo zaino, la donna che si ferma a sistemarsi i capelli e, nel farlo, lascia scivolare via un pensiero triste.

 

Ecco, credo che lei capirebbe subito tutto. Non servirebbero parole. Perché c’è qualcosa nel suo modo di osservare che va oltre la logica: è un vedere che somiglia a una carezza.

 

Il mondo oggi ha bisogno di quella carezza. Di qualcuno che ricordi che la grandezza non è potenza, ma misura. Non è urlare, ma restare presenti. Lei mi ha insegnato questo, senza nemmeno saperlo.

 

E mi ha insegnato anche che la pace non è assenza di rumore, ma silenzio interiore. Non si trova nei palazzi, ma nel saper accettare ciò che non possiamo cambiare. Io sto ancora imparando, giorno dopo giorno. Ci sono momenti in cui credo di averla trovata, e altri in cui la perdo di nuovo. Ma ora so che vale la pena cercarla.

 

Forse è per questo che le scrivo. Per dirle grazie. Perché a volte basta incontrare un personaggio come lei per sentirsi un po’ meno soli. Non importa che lei appartenga a un romanzo, o che il suo autore non ci sia più. Alcune figure vivono per sempre, proprio perché ci mostrano parti di noi che avevamo dimenticato.

 

Se potessi stringerle la mano, le direi che il suo cielo di Austerlitz non è andato perduto. È ancora qui, sopra di noi. Ogni volta che qualcuno si ferma, anche solo un attimo, a guardare il mondo con occhi sinceri, quel cielo torna a brillare.

 

Con gratitudine, e un po’ di malinconia,

 

Elisa

 

 

Wednesday, December 10, 2025

Piergianni Curti: Pink Moon



Il nostro gioco è di far arrapare sta gente di sta città senza senso.
Quando passiamo sembriamo due aerei carichi di bellezza che vanno a schiantarsi sul corso. La gente non fiata più. Le nostre minigonne iniziano più o meno dove finiscono ma non è qui il punto. È che sti aerei sono carichi di intelligenza che da queste parti non si è mai vista. Prima o poi ce ne andremo ma per adesso dobbiamo fare gli esami di terza media. Siamo le prime della classe, anzi di tutte le classi messe insieme. Certo che non è che a scuola c’è tutto sto clima interessante, però leggiamo tutto quello che arriva alla biblioteca. Ci portiamo sempre qualche libro dietro, anche quando facciamo il défilé sul corso in modo che non ci prendano per due come loro.
Letizia dall’alto dei suoi uno e settanta per quasi quattordici anni va avanti. Si muove che sembra che sposti la città ad ogni passo. La fa ondeggiare. Quando arrivo io gli do il colpo di grazia. Faccio come se non avessi un corpo ma più faccio finta che non c’è e più si vede. Non sono io che cammino. È il mio corpo che fa tutto da solo. A quelli gli prende male.
Mia mamma mi dice sempre che dovrei nasconderlo sto corpo che mi porterà guai. «E come faccio, non si può nascondere la verità» le rispondo. Che non è una gran risposta per mia mamma, ma cosa le dovrei dire? Tanto le prende sempre la depressione prima e dopo, qualunque cosa io dico. Voglio bene a mia mamma ma non so che cos’altro potrei dire.
La cosa che mi piace di più in assoluto? La matematica. Non scherzo. Mi piace perché ci vuole potenza. E la potenza ce l’hanno in pochi. Ce l’hai o non ce l’hai. Non è una cosa che lavori e lavori e ci arrivi. Per esempio, io prendo il libro di geometria. Leggo: “Teorema b23: In un triangolo, eccetera, eccetera”.
Mi concentro e metto in moto la macchina. Ti viene o non ti viene. A me viene. Dopo un po’ ho capito come si dimostra. Non c’è niente di più eccitante al mondo. A Letizia non viene. È il suo unico limite. Ogni tanto l’aiuto a fare matematica. Mi fa tenerezza. Proprio non ci arriva. Però è lo stesso il massimo. Un giorno forse faremo una ditta: io faccio teoremi e lei li vende.
Stamattina mi sono misurata. Veramente mi controllerei tutti i giorni ma il bello è di vedere scattare i centimetri. Adesso per l’esattezza sono centosettantaquattro e nove per tredici anni, otto mesi e un giorno. Ho misurato 10 volte e ho fatto la media. Ogni tanto festeggiamo che ci siamo conosciute: tiriamo a sorte giorno e mese e non ci vede più nessuno fino alla sera. Mia mamma sospira che non è quella l’ora di tornare, alla mia età. «Avevamo da studiare, mamma». Non può mica dire che non è vero, no?
Abbiamo deciso di restare vergini, di non bere, non fumare, non scopare, non mangiare porcate, non farsi, non perdere tempo. Ci amiamo. Staremo sempre insieme. Mi sembra stupendo.
Comunque non si parla d’altro che di sti due morti ammazzati. Prima dicevano che era un maniaco, poi un serial killer. Quasi nello stesso modo, tutti e due. Da ridere. Un sacchetto di plastica trasparente fissato con il nastro isolante attorno al collo. C’avevano gli occhi spalancati. Letizia dice che sono morti dimenticandosi di spegnere la luce. A me non mi fa nessuna impressione. A mia mamma ho detto:
«Di morti ce n’è un mucchio. Non vedi? E guardati attorno». Mi ha risposto che un giorno mi pentirò di quello che ho detto. E che non devo credere che anche lei è così, e tutti quanti quelli che io disprezzo.
«Non t’ho mica detto che tu sei morta, no?»
«Però lo pensi»
Non ho risposto. Mi ha detto che sarò io a farla morire. Non c’ha un minimo di logica. Le ho risposto:
«Ragiona. Se io non ci fossi moriresti lo stesso».
Sul Corriere di suo padre Letizia ha letto che erano fatti di sedativi. In casa mia mia mamma prende En e Serenase. Mio papà Tavor. Da Letizia Minias, Roipnol, più Tavor, più En, più Seropram. Mia mamma non dorme quando c’è il vento. «E quando non c’è non dormi perché lo aspetti?».
Mi sono presa una sberla, ma non è che sia davvero riuscita a prendermi.
A scuola la prof di italiano ci ha detto che è il secondo in due mesi. «Uno al mese!» abbiamo fatto tutti in coro. Lei ci ha detto che c’era poco da scherzare e che c’è qualche maniaco in giro. Allora Letizia le ha chiesto ma che cos’è un maniaco e tutti ridacchiavamo. La professoressa ha cominciato a non sapere più bene che cosa poteva dire, come dirlo, eccetera. Alla fine è entrato il bidello a chiamarla perché la voleva il preside. «E tre!» abbiamo esclamato. Ma non era così. Siamo andate alla pineta. A mia mamma ho detto che andavo da Letizia e Letizia ha detto a sua mamma che veniva da me. Abbiamo cominciato a baciarci. Letizia ha delle labbra che sembrano un divano. Ti ci puoi sdraiare. Credo che a questo mondo ci siamo solo noi due. È pieno di maschi che ci vengono dietro, vecchi e giovani. E anche di donne. Due mesi fa quella che hanno trovato morta che occhieggiava dal sacchetto di plastica le aveva regalato un libro scritto proprio da lei. Non ce lo siamo letto di certo. Si aspettava di mettere la lingua tra le gambe di Letizia. Quando le ha restituito il libro la signora le ha detto: «Tienilo pure. Voglio che tu lo tenga». Ha detto anche che presto le avrebbe fatto un altro regalo. Ma quel presto non è mai arrivato.
È una città in cui ci si dà da fare. A volte mi chiedo come fa la gente come mia madre che non si dà da fare e che forse non sa neanche cosa voglia dire. E mio padre? Magari si dà da fare con una simile a mia madre che a casa sembra una morta come mia madre. E magari mia madre si dà da fare di nascosto con uno che assomiglia a mio padre. Ma la signora del libro era diversa. Faceva solo quello nella vita. Scriveva favole per bambini e si dava da fare. Da piccola mia mamma me le ha lette una volta. Erano sul giornale locale.
Quello che hanno trovato per secondo anche ci aveva provato, ma più con me che con Letizia. Mi ha messo un bigliettino in mano. Mi voleva dare un mucchio di soldi. Ci siamo dette con Letizia: ce li mettiamo da parte e poi ce ne andiamo a vivere insieme. Il giorno dopo mi ha messo in mano un altro bigliettino. Ho fatto finta di niente. «Allora?» mi ha chiesto. Gli ho dato del lei:
«Quanti anni ha?»
«Trentacinque»
«Allora ne voglio il doppio». Non stava più nella pelle:
«Quando?»
«Non so. Devo studiare. E poi non voglio che mi vedano con lei». Non avevo nessuna intenzione. Però ero curiosa. Tre giorni dopo me lo sono visto davanti con la sua Bmw. Non c’era nessuno. Mi ha detto: «Sali?». Insomma sono salita. Mi ha portato lungo la litoranea, verso sud. Cercava di toccare.
«Non è che ti viene un malore alla tua età?» gli ho detto. In quel momento mi ha telefonato Letizia: «Che fai?». Le ho risposto in codice “effe” come “fuck” ma esageravo.
«Chi era?»
«Mia madre. Mi tiene sempre sotto controllo». Si è preoccupato, così l’ho tenuto a bada per un po’. Non è stato un granché. Dato che ero vergine non gli ho lasciato fare proprio tutto quello che voleva. Mi sono messa i soldi nel reggiseno. Al ritorno ho chiamato Letizia “ipsilon” che era co me dire “yes”. Prima di farmi scendere mi ha detto che mi amava. «Io no» gli ho risposto. E poi ho aggiunto: «Il mio prezzo va come la successione di Fibonacci».
«Cioè?»
«1, 2, 3, 5, 8, 13,… Devi sommare quello che hai pagato la volta prima con quello della volta prima ancora».
Quando sono tornata a casa ho fatto una doccia. Ma cercavo di non lavarmi. Ero attratta da quel nuovo corpo. Per una settimana non ci siamo fatte vedere. Avevamo da studiare. Non era ancora successo niente. Nessun omicidio. La signora dei racconti per bambini ci stava ancora provando e pensavamo che saremmo diventate ricche e saremmo andate a vivere insieme.
La seconda volta col trentacinquenne ha voluto venire anche Letizia. Gli abbiamo dato appuntamento fuori, in pineta. Gli abbiamo detto che avevamo solo un’ora di tempo e che doveva pagare tutte e due. Non ha fatto storie.
«Vuoi che ci baciamo?»
Gli abbiamo fatto vedere un po’ di cosette così si è arrangiato da solo.
Poi gli abbiamo fatto notare che era tardi e che sarebbe stato per un’altra volta. Non ha fiatato, se non quando mi ha detto che era pazzamente innamorato di me. «Io pazzamente di lei» gli ho risposto accarezzando Letizia. Quando ci ha lasciato abbiamo camminato leggere fino in centro.
La signora che scrive favole l’ha ammazzata una donna e il trentacinquenne un uomo sui novanta chili, dicono. Abbiamo avuto persino l’impressione che non ci guardi più nessuno. I più guardati sono gli uomini sui novanta chili. Io e Letizia ci facciamo la nostra vita. Studiamo e andiamo per i fatti nostri. Letizia mi ha confessato di essere stata a casa della signora che scrive racconti per bambini. Ma che non è successo niente. Hanno trovato secco anche il prof Maniscalco. Stavolta non abbiamo sentito la prof Sibona, quella di lettere. Ci hanno mandato tutti nella sala polivalente del comune dove c’era il preside, un prete, un altro che era uno psicologo e un carabiniere. E lì state attenti qui e state attenti là.
Il professor Maniscalco mi guardava sempre le gambe. Una volta ci ha fermato me e Letizia per dirci che il preside non voleva le minigonne ma che lui era per la libertà. C’aveva quarantotto anni. «Uno così c’ha sempre la miccia accesa» mi ripeteva Letizia. «Qualche volta gli si aprono i pantaloni e scoppia tutto. E spegnili sta miccia, no?»
«E spegnigliela tu» rispondevo. Allora un giorno nel corridoio gli abbiamo chiesto, visto che era di educazione tecnologica:
«Ma come funziona la miccia?»
«Quale miccia?». Intanto Letizia aveva fatto finta di cadere e gli si era aggrappata. Lui si era sbilanciato ed era finito proprio con la mano sulle mie tette. Non avevo detto niente e neanche mi ero tirata indietro. Era rosso come un pomodoro. Adesso si è accesa la miccia abbiamo pensato e abbiamo fatto di tutto per non ridere. Lui non riusciva a staccare sta mano. Allora ho fatto un passo indietro.
Il quarto però non se lo aspettava nessuno. Letizia stava sdraiata per terra. Teneva gli occhi ben aperti. Era seminuda. Aveva la testa dentro un sacchetto di plastica trasparente. Aveva anche il rossetto. Chi aveva mai visto Letizia col rossetto? Sul giornale la madre diceva che Letizia non si era mai messa il rossetto. La sua amica Marosia diceva che qualche volta se lo mettevano, per scherzo. Tanto le avevano viste tutti, tranne sua madre. I carabinieri avevano voluto sapere un mucchio di cose su Letizia.
Ma soprattutto volevano sapere se c’era qualcuno che voleva farsela. Non potevo mica dirgli che una volta il prof Maniscalco le aveva detto che male c’è se ci vediamo? Anche a me l’aveva detto. Mia mamma sembrava più distrutta del solito. Anche lei voleva sapere un mucchio di cose ma non sapeva come fare.
«E cosa ti hanno chiesto i carabinieri?»
«Niente»
«Non so, se c’era qualcuno»
«Sì»
«E c’era sto qualcuno?»
«No»
«Ma sei proprio sicura?»
«Non c’era nessuno, ti dico»
«Ma come, una come Letizia. Ed eravate sempre insieme, no?»
E i carabinieri che mi continuavano a dire: «Certo una carina come te. E una carina come Letizia. E che dico carina? Bella. Bellissima. Chissà quanta gente ti guarda quando cammini. Ci sarà stato qualcuno che qualche volta vi ha detto qualcosa a te e a Letizia, no? E poi, sto professore Maniscalco. Magari lo conoscevate bene, no? Lo conoscevi sto professor Maniscalco?»
«Lo conoscevano tutti a scuola».
«Sì, ma era uno»
«Uno come?»
Al funerale c’era un mucchio di gente. Tutta la scuola e tutta la città.
Comunque non volevo piangere ma poi ho pianto lo stesso.
Ho passato quindici giorni a prepararmi per gli esami. A Letizia non voglio pensarci. Il prossimo anno vado al liceo e questa è l’unica cosa a cui voglio pensare. Mi guardano tutti come se fossi una che sa un mucchio di cose. Prima o poi me ne vado da sto posto e così non dico più niente a nessuno. Non mi va più bene sto reggiseno. Mi piace guardarmi allo specchio. Mi tolgo tutto e mi guardo. Mi chiudo bene a chiave. Mia mamma ci prova sempre “Cosa fai chiusa in camera? Che fai sempre chiusa in camera?” Tengo lo stereo alzato. Ascolto Nick Drake e studio. Studio e studio. Più studio e più mi piace studiare.
Ho preso un altro centimetro.
Io lo so chi è stato ma non glielo dirò mai.
Adesso c’è anche una psicologa perché sono minorenne. La psicologa mi dice sempre: «Certo che sei proprio bella». Io penso: «Puoi ben dire». Allora le rispondo: «Non mi sono mai accorta di essere bella. Io non mi sento per nulla bella. Non so se gli altri mi vedono bella, a me non me l’hanno mai detto».
La frego sempre. C’ha dei denti lunghi e se li mastica mentre cerca di sorridere in continuazione e di dire stronzate che io non dovrei accorgermi che lei dice per inchiappettarmi.
«Però ti vesti come»
«Cioè?»
«Beh, si vede che ci tieni alla tua figura»
«Ma se si vestono tutte così, anche le racchie»
«Allora pensi che tu non sei una racchia»
«Perché, vuol dire essere belle?»
Insomma, si mastica sti denti e si digerisce tutto per finta. Poi mi dice:
«A venerdì».
«A venerdì». Mi alzo e cammino con le gambe strette e piegate come se mi scappasse. E mi tiro giù in continuazione la minigonna. Adesso lo faccio anche fuori così i carabinieri che mi spiano sono costretti a guardarmi ancora di più. Chissà quante pippe si fanno. Ho detto alla psicologa:
«Altro che farmi guardare dagli altri. Saranno sti carabinieri che mi guardano e mi spiano tutto il giorno».
Ha preso una bella boccata d’aria da masticarsi per un po’ e poi ha fatto la più bella faccia come se si stupisse e mi ha detto:
«Ti senti perseguitata?»
«No, ma me lo dicono tutti»
«Chi?»
«Tutti»
«E tu ci credi?»
«A cosa devo credere, allora? A lei che non lo sa?»
Si è masticata ancora un po’ d’aria e poi mi ha detto: «A venerdì». Ho fatto finta di essere spaventata: «Ho paura». Allora si è illuminata: «Ci sono io. Ci sono io mia cara». Ha fatto per prendermi le mani. Che schifo.
Istintivamente le ho ritirate. Allora le ho rifilato un: «Beata lei che sorride sempre». L’ho fregata. Adesso non vorrebbe più sorridere ma è troppo abituata a farlo e allora si ricorda di colpo che non deve sorridere come una scema e poi subito dopo si dimentica che non deve sorridere come una scema.
Intanto il mio corpo si allontana da questo mondo. Possono solo guardarselo e morire di invidia. Come canta Nick Drake in Pink Moon: «la luna rosa è in cammino/ e nessuno di voi potrà mai stare così in alto».
Adesso mi fanno spiare da due donne carabiniere, così almeno non si fanno le pippe. A meno che. Adesso invece di tirarmi giù la minigonna me la tiro sempre più su così ’ste chiattone vedono cos’è un corpo. La psicologa mi ha detto:
«Ti piace andare in giro?»
Allora faccio finta di no: «Non mi piace ma se sto a casa mi sento male».
«Interessante»
«Ho paura che i mobili si suicidino»
«Cioè?»
«Si suicidano»
«Interessante. Veramente. E come fanno?»
Allora le racconto che il frigo si spara e il letto si impicca. Non sa proprio cosa dire. L’ho definitivamente fregata. E davvero stavolta non le viene quel sorriso idiota. Poi si è fatta seria: «C’era qualcosa tra te e Letizia?»
Era divertente. Facevo finta di non capire. Cercava di girarci attorno.
Ad un certo punto mi ha detto: «Vi mandavate strani messaggi. Tipo ND. E un mucchio di sms vuoti. Che significavano?»
«E come lo sa?»
«Dai tabulati»
«Ci piaceva Nick Drake»
«Nick Drake?»
«È un cantante»
«Americano?»
«Inglese»
«È giovane?»
«Sì»
«Quanti anni ha?»
«È morto»
«Quando?»
«Saranno trent’anni»
«E come è morto?»
«Ha preso troppe medicine»
«Ah. E di cosa parla nelle sue canzoni?»
«Delle solite cose. Ci piaceva la musica»
«Ah. Sai, noi siamo convinti che tu sappia molte cose ma che non ce le voglia dire»
«Se sapessi qualcosa che non ho ancora detto ve lo direi così mi lascereste finalmente in pace»
«E cosa faresti se ti lasciassimo in pace?»
«La mia vita»
«E qual è la tua vita?»
«Studiare»
«Cosa?»
«Matematica»
E così sono finiti i nostri colloqui. Io ho cominciato davvero a studiarla giorno e notte e a diventare sempre meglio e a non uscire più.
Hanno dovuto lasciarmi in pace per forza.
Con la scrittrice di favole per bambini non siamo andate lì con l’intenzione. Era insopportabile quanto fosse arrapata. Puzzava di alcol.
Ad un certo punto le ho chiesto se voleva che le facessimo vedere qualcosa.
Non mi sarei fatta toccare con un dito. Le ho detto che doveva pagarci.
«D’accordo» ha risposto. Poi ha cominciato ad allungare le mani. Ci siamo guardate.
Abbiamo cominciato a far finta di scappare. Lei si avvicinava. Stavamo lì ad aspettarla. Appena era vicina che stava per sfiorarti facevamo come si fa con il toro nell’arena: «Olè». Si sforzava di ridere ma era fuori di sé dalla voglia. Mi sono fermata. Le ho detto, dura: «Facciamo un patto. Se mi prende le concedo i primi due minuti gratis. Poi paga. Ogni minuto raddoppiamo la cifra. Cominciamo da 1 euro. Ci vuole poco a sapere che dopo due minuti fanno 2 euro, dopo tre 4 euro, dopo quattro 8, dopo 20 una cifra: 2 alla 19, 524288. Ce l’ha 8 euro?». Mi guardava senza capire. Mi sono fermata:
«Ha capito cosa le ho detto? 524288! Sennò ce ne andiamo». Volevo andarmene. Non capiva. Era furiosa. Mi ha afferrato. Le ho dato un vaso di bronzo sulla testa. Era lì, a portata di mano. È rimasta stordita ma non si fermava. Sembrava un automa in foia. Si è buttata verso di me. Le è arrivato un secondo colpo. È caduta in ginocchio. Invece di calmarsi mi ha placcato le gambe. Le ho dato un terzo colpo ed è andata giù. Ho sentito i polmoni come se si svuotassero: «woofff». Allora Letizia ha preso una boccetta di Darkene che era sul tavolino e gliel’ha versata tutta in bocca.
Invece di addormentarsi si è svegliata. Cercava di sputare debolmente.
Letizia le ha messo il cappuccio di plastica. Io le tenevo i polsi. Lei non aveva la forza di divincolarsi. Letizia le ha girato il nastro isolante attorno al collo. Poi l’abbiamo tenuta giù. La signora che scriveva racconti per bambini adesso si era ripresa e cercava di liberarsi. Muoveva la testa a sinistra e a destra e cercava di urlare. Sembrava la voce di una radio sotto le coperte. Non riusciva a respirare. Ho cominciato a contare ad alta voce: uno, due, tre. Non c’è voluto tanto, cinquanta o sessanta.
Per sicurezza ho contato fino a duecento, ma non ce n’era proprio bisogno.
Sti vecchi non hanno niente dentro, né nei muscoli e né nella testa. Non avevamo toccato niente da nessuna parte. Guanti di lana, sono il nostro distintivo. Naturalmente i carabinieri avevano trovato segni di scarpe da donna con i tacchi, numero trentanove e numero trentanove. Stesso modello, stessa marca, stesso peso, quasi. Ci voleva poco a stabilire che c’era una donna che le ha dato una botta in testa. Va a scoprire che sono due ragazzine che c’hanno il corpo da donna. Non vorrei che pensassero che c’è qualcuno tipo giustiziere che va a ripulire il mondo delle sue brutture. Niente di tutto questo. È semplicemente andata così. Faceva semplicemente schifo. Se fai un giro d’orizzonte non vedi essere umani, solo vecchi e scemi che si lamentano e si lamentano.
Il trentacinquenne facevamo finta che fosse il modo giusto per farci un po’ di soldi. Ma anche con lui era come con la signora che scriveva libri per bambini. Era come andare a scuola, nel laboratorio di scienze a fare esperimenti. Poi un giorno mi ha detto che non gli andava più in quel modo.
Che mi amava, eccetera. «Va bene» gli ho detto, «Addio». Fine dell’esperimento, abbiamo pensato io e Letizia. In effetti non ne avevamo più voglia. Invece ha cominciato a rompere. Te lo trovavi da tutte le parti. Abbiamo cambiato posto, in pineta. Però un giorno ci ha trovato. Ci aveva seguito. Noi alla pineta e lui dietro di noi che implorava e minacciava. Per tenerlo buono gli ho detto: «Cosa credi, che io non soffra?
Ma lo sai quanti anni ho? Tredici». «Ti prego» ho ancora aggiunto «Dammi il tempo di riflettere». Cercava di baciarmi ma non gliel’ho permesso. Era tardi. Ho inventato che avevo un appuntamento: «Ci accompagneresti in macchina?». Errore fatale. Ha fatto un paio di chilometri dalla parte opposta. Era fuori di testa. Allora ho finto di sentirmi male. Volevo prendere tempo. Letizia mi ha detto:
«Vuoi la tua medicina?». Geniale! «Grazie, sì». «Che medicina?» Mi ha domandato lui. «Sono malata» gli ho risposto. Letizia ha riempito un bicchiere di due boccette intere di Roipnol che aveva fregato a sua madre.
Io intanto facevo finta di avere bisogno di dormire. Ma non avevo idea di cosa sarebbe successo. Neanche Letizia. Ci ha provato. Gli ha detto: «Vuoi un po’ di coca-cola?» Gli ha dato il bicchiere con le gocce nella coca-cola. Istintivamente gli ho detto: «Al nostro» Ma non sono riuscita a pronunciare la parola amore neanche per finta. Mi sono sforzata di sorridergli. «Uno, due, tre, tutto d’un fiato, dai!» Ho toccato col mio bicchiere di plastica il suo. «Dai! Tutto di un fiato!». Abbiamo buttato giù tutto d’un fiato. «Ha uno strano sapore» ha detto lui.
«È un nuovo tipo» ha risposto Letizia. «Baciami» ho detto io. Mi veniva da vomitare. L’ho baciato e l’ho baciato. Avevo paura di avvelenarmi.
«Ne volete ancora?» Aveva riempito altri due bicchieri. Ho dovuto continuare a baciarlo e a farmi toccare finché abbiamo capito che non ce la faceva più a stare sveglio. Allora abbiamo aspettato. Abbiamo provato a svegliarlo. Così Letizia ha potuto mettergli il sacchetto.
Erano le sette. Era buio. Sono scesa. Per terra era asfaltato. Letizia è salita sulle mie spalle. Insieme saremo state sui novanta chili. Ho lasciato un paio di impronte in un punto dove c’era la terra. Camper alte di due numeri più grandi. Poi abbiamo raggiunto la spiaggia di ghiaia e di lì la passeggiata che andava verso la città.
Il prof Maniscalco mi ha sibilato: «Che ci facevate in macchina con un uomo?»
«Chi?»
«Non era certo un ragazzino. Una Bmw».
«Lei non ce l’ha la Bmw?» ha detto Letizia strafottente. Avevo paura. L’ho zittita: «Ci porta a prendere un gelato un giorno?» ho detto al prof.
«Oggi?»
«Dove?»
«A casa mia»
«Meglio domani. Oggi ho da studiare». Invece ci siamo andate alle quattro.
Pioveva e c’era poca gente in giro. Abitava in un postaccio dietro la scuola. Era guardingo. Letizia aveva tutte le sue cose da bere ma non sapevo se avrebbe funzionato. Se non funzionava dovevamo fargli qualcosa che se ne stesse zitto perché gli conveniva. Era teso e imbarazzato. Gli ho detto: «Però al massimo ti posso fare un pompino. Sono vergine». Poi non gli ho dato altro tempo. Mi sono tirata su la maglia che mi vedesse ben bene le tette. Poi mi sono tirata giù i pantaloni, me li sono tolti e mi sono levata le mutandine. Avevamo vestiti da maschio, grandi e senza forma. Si era arrapato. Gli ho fatto vedere ben bene il pelo. Non si chiedeva più se eravamo vestite da maschio o da femmina. Di fronte allo spettacolo si è dimenticato che era in allerta.
«E lei?»
«Anche lei te lo fa». Si è spogliata anche Letizia. Continuava a guardare. Letizia non ha quasi pelo. Lo ha fulminato. Continuava a guardare. Lei gli ha fatto uno spettacolo di andirivieni mentre metteva la sua roba a posto e la piegava per bene. Gli ho detto: «Spogliati. Però devi lavarti». Letizia lo ha aiutato. Ma lui continuava a guardarmi. Facevo finta di niente.
«Vatti a lavare, dai». È andato nel suo bagno cieco. Gli sono andata dietro. «Se non ti dispiace faccio pipì». «Dai, fa in fretta» gli ho ripetuto. Letizia mi ha detto: «Sbrigati, devo farla anch’io». Si è fatta un giro in cucina. Avevamo pensato ad una possibilità. Quando è tornata in bagno lui era sul bidè. Dallo sguardo di lei ho capito. Gli ho detto «Dai, ti lavo io». Non gli era venuto duro. Nessun commento. Letizia si è piazzata dietro di lui. Li aveva nascosti sotto la maglietta. Ho cominciato a succhiarlo. Poi ha cominciato lei. Mi aveva passato un coltello da cucina.
Avevo un secondo. Lei glielo ha stretto. Lui si è concentrato su quello e io ho contato solo fino a uno. Tutti i pesi che ho fatto si sono rivelati provvidenziali. Gliel’ho piantato in gola. Letizia si è alzata di scatto e si è spostata di fianco. Lui si è portato le mani alla gola. Non ha detto niente. Si è tirato su come un bufalo e lì ho avuto paura. Eravamo pronte tutte e due. Zampillava. Poi è andato giù. Eravamo nude. Letizia aveva una macchia sulla gamba. Io ero pulita. Abbiamo tenuto sotto controllo la scena fino all’ultimo. Avevo il suo schifosissimo sapore in bocca. Non volevo che restasse nessun segno. Gli ho versato l’Ace tra le gambe. Non volevo che restasse la mia saliva, o le mie cellule di lingua. Abbiamo infilato i coltelli in una pentola e gli abbiamo versato sopra Omino verde.
Non avevamo toccato nulla e non ci eravamo tolte mai i guanti, anche se erano da cambiare. Ma ne avevamo un paio nuovo. Prima di uscire abbiamo cosparso nella sua camera tinello cucinino bagno tutti i detersivi che abbiamo trovato. Abbiamo fatto una poltiglia. Erano passati solo una trentina di minuti. Dovevamo andare a farci vedere sul corso.
Non c’era nessuno per le scale. Il vero problema era di non farsi vedere.
Per fortuna pioveva. Avevamo una sciarpa che ci copriva praticamente la faccia. Ci siamo nascoste sotto l’ombrello. In quel postaccio non c’era nessuno. Ci siamo divise. Avevo io tutta la roba da buttare, cioè i guanti.
Li ho buttati in un cassonetto, lontano. Ci siamo ritrovate a casa mia.
Abbiamo fatto la doccia, ci siamo conciate da strafighe e dieci minuti dopo abbiamo fatto il solito defilé sul corso.
Però lo sentivamo, era finita. Il mondo faceva schifo lo stesso, come prima. Mia mamma continuava a prendere i suoi ettolitri di Minias, En, Serenase eccetera. La prof di italiano dopo un po’ ha smesso di dire cazzate però non aveva nient’altro da dire. Il gioco era finito. Nonostante la gente si fosse infervorata al nuovo gioco, era giunto il momento di toglierglielo. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi tutto sarebbe tor nato a qualche forma di rassegnata normalità. Sarebbero tutti tornati ad essere quei morti che erano. Mica puoi ammazzare metà della popolazione perché l’altra metà si senta viva. Se vuoi una cosa è cambiata. Ho davvero capito cosa farò nella vita: la matematica. E anche che mi sono stufata di fare arrapare tutti sul corso. Fine della nostra prima classe nella scuola della vita. Avevamo un diploma ma non c’era il lavoro corrispondente se non quello di andarsene da quel posto.
Il mio unico gioco è diventato quello di farmi tutto il libro di geometria di mio fratello che fa le superiori ma senza guardare come si dimostrano i teoremi. Ci voglio arrivare da sola. Finora ci sono riuscita. Sono al ventisettesimo teorema. Poi ho preso un altro centimetro. Poi ancora mi sono comprata un libro di matematica nuovo. Passavo i miei pomeriggi a leggerlo. Anche le sere e le notti. Mia mamma rompeva sempre: «Ma non ti guardi la televisione?».
Non avevo più voglia di uscire. Così, di colpo, ho visto che è bastato un metro di una strada nuova ed è come se avessi già fatto dieci chilometri.
Letizia non diceva niente. Ogni tanto la pensavo ma ero confusa. Però avrei voluto che anche lei venisse con me. Quando facevamo l’amore io non smette vo di pensare. Pensavo alla matematica e vedevo la mia strada e la sua. Che me ne sarei andata il più presto possibile e che lei sarebbe rimasta a fare magari l’impiegata, e alla fine chissà. Letizia si vedeva che soffriva. Mi mandava i soliti sms vuoti, ma uno dopo l’altro. Non mi veniva voglia di rispondere. Veniva a studiare a casa mia ma non riusciva a studiare. Voleva solo che la baciassi, che lo facessimo sempre. Ma io più me lo chiedeva e più avevo voglia di studiare. Se io studiavo lei sbuffava e diventava triste. Non sopportavo la sua tristezza. Facevo finta di no ma era finita. Poi un giorno gliel’ho detto. Non potevo neanche guardarla in faccia. Volevo andare lontano. Ho detto a mia mamma che avrei fatto il concorso per avere una borsa di studio da qualche parte. Passavo le mie giornate a studiare tutto. Non solo matematica. Ero diventata la super prima della classe. Letizia non stava neanche più nel mio banco. Stavo da sola.
Stavo benissimo.
Mi ha chiesto un appuntamento in pineta. «Alle quattro. Prima non posso, le ho detto». Mi è arrivato un sms vuoto alle due. Non ho risposto. Me ne ha mandato un altro alle tre. Non ho risposto. Non era nel solito posto, in pineta. Era sdraiata sulla riva, sui ciottoli. Da lontano si vedeva il sacchetto di plastica che faceva da specchio, come un vetro. L’ho chiamata.
Non ha risposto. Mi sono tolta le scarpe e ho camminato verso lei con i piedi nell’acqua. Aveva gli occhi aperti. Anche lei non aveva spento la luce. Si era spogliata. Voleva lasciare qualche dubbio, forse. Che anche lei fosse stata vittima del maniaco? Accanto però c’era una boccetta di Roipnol. Ho pensato: magari ha scritto tutto su un diario o ha un biglietto in tasca. Ho aperto il suo zaino. Sul suo diario solo sigle, le solite, che volevano dire qualcosa solo se lo sapevi. In tasca niente. Solo una foto di classe. Eravamo vicine. Non mi aveva tradito. Ho rifatto la strada verso casa. Adesso potevano venire da me. Non avevo niente da raccontare. Per il resto avevo solo tredici anni. E un dolore che potevo curare solo con la matematica.
Adesso ho ventisei anni. Insegno all’università: matematica. Sono sempre una strafiga. Sempre di più. Non mi sono sposata. Non mi sono neanche mai fidanzata.
Il mio campo d’indagine è quello dei fondamenti. La matematica non ha fondamenti, questa è la sua ferita che non si rimargina. Ho imparato dai matematici che si va avanti lo stesso, sulla via dell’imperfezione, spinti come insetti da una specie di istinto. Mi vengono i brividi a pensare che la questione dei fondamenti sia magari una questione di biologia e di leggi contingenti. Però non lo so e non credo che lo sapremo mai. Ogni tanto vado da un dottore, uno psicodottore. È innamorato di me e si arrampica sui vetri per dimostrarmi che c’è una soluzione a tutte le cose. Mi piace assistere all’inutilità dei suoi sforzi. Qualche volta mi viene voglia di fargli un regalo: andarci a letto. Sarebbe un regalo andarci a letto una sola volta? O due o tre? Comunque non riuscirò mai a fargli questo regalo.
In qualche modo Letizia ha vinto. Mi ha insegnato che devi avere il coraggio di fermarti in tempo e di non abituarti ad alzare la soglia del dolore così tanto da vanificare lo stesso concetto di dolore. È quello che mi è successo? Non so rispondere. Forse sta qui la questione dei fondamenti? Sapere dire di no? Non so rispondere. La verità è che non so rispondere a niente.
Se Letizia fosse viva vivrei con lei. Non sapendo niente cercherei di non sapere niente. Non andrei a caccia di fondamenti. Però, mentre dico queste cose mi rendo conto che non so esattamente quello che dico. Ho l’impressione di tirare un filo infinito. Non so cosa ci sia all’altro capo del filo. Passo il tempo che mi resta durante la giornata a tenere vi vo il ricordo. Non ho più nessun ritegno: parlo con lei, le spiego quello che faccio, la sgrido, le rispondo male, e poi le faccio tante coccole.
So che non la rivedrò più.
Mi sono comprata dei sacchetti di plastica trasparenti e nastro isolante nero, largo un centimetro appena. Come quello di Letizia. Non ho ancora le gocce. Ma quelle non ci vuole niente a trovarle, quando servirà. Devo solo abituarmi all’idea che non la troverò più, da nessuna parte. È per questo che sopravvivrò ancora per un po’ di tempo.


Thursday, December 4, 2025

Alessandro Chiantoni

  



Alessandro Chiantoni is 27 years old, lives in Bergamo, and began studying piano at the age of 6. Since then, music has always been a part of his life, and he has never abandoned it. He, therefore, owes a great deal to the piano and to his first conservatory teacher, Tiziana Moneta, who provided him with a solid foundation that he still relies on today. Alessandro himself says that he will never be able to thank her enough for believing in him from the start.


He began playing the organ at about 12 years old on his own; now, he has graduated from the three-year course in Organ and Organ Composition and completed the two-year course under the guidance of Simone Vebber, an excellent Organ teacher at the Bergamo Conservatory.


In 2020, he was appointed titular organist of the church of Sant'Anna in Bergamo, and to gain experience in the organ world outside of Italy, he has attended many courses with important foreign organists; this is fundamental because there is nothing like having direct experience of things to understand them and draw a lesson from them. He considers himself fortunate to be a musician and to play for others, but at the same time, he is passionate about composition, as it is one of the ways he expresses himself. He has developed a passion for designing new instruments, including an organ that can be used for both study and concerts, a unique and innovative instrument with a completely different concept compared to the instruments currently present in our territory.


He was named the best student of the 2020 Masterclass. It was a fantastic course during which he met excellent organists, of whom he says: "I was thrilled to be the best, but the others were certainly no less. It was a wonderful experience that enriched me from both a musical and human perspective, where Art was at the center of everything. I am delighted to have been invited to Costa Valle Imagna this year and to have the opportunity to be able to express myself on such a beautiful organ."


To achieve these results, he says, "You have to be serious, with yourself and with others, be constant in studying, and never spare yourself to overcome your limits finally. When studying music, you must have discipline; otherwise, you will waste many hours without achieving results. It is not easy, but it is necessary; it is something you learn in the conservatory because, without seriousness and method, it is impossible to complete your studies. With the organ in particular, you always have to question yourself; each instrument is different in many characteristics, and each time, the organist has to adapt to the instrument itself, which becomes the most important teacher; for this reason, when you study, you always have to listen to yourself with a critical ear and adapt what you are doing to the instrument you are playing and the acoustics where it is located." He studied with Jean-Baptiste Monnot, thanks to whom he developed self-awareness and the ability to express his ideas with strength, even in music. Always from his words, "This becomes the key to overcoming the technical and expressive difficulties of the songs. Music never comes from outside but is born from within the human soul, and we must find the right way to express it. We live in a world where we call "art" anything that generates an immediate sensation in us; in reality, authentic Art is the fruit of a conflict that a sensitive soul translates, not without effort, into an interior artistic act. Awareness is the engine that drives the artist to find a way to express their interiority, and this arises from a personal need. Not all musicians are artists because playing notes all in a row does not constitute Art if those notes come from nothing and do not communicate anything."


I propose a video that illustrates the difficulty of playing this type of organ to be broadcast live in streaming on August 27, 2020. Bergamo was the Italian city most affected by the Coronavirus, so Alessandro Chiantoni organized a live concert in the church of Sant'Anna, entirely dedicated to improvisational Art. Alessandro proposes some improvisations in different styles to the wonderful organ built by the Serassi brothers.