Il
fiore del Carso – Romanzo storico di Eleonora Davide
Recensione
di Maria Teresa De Donato
Ancora una volta Eleonora
Davide ci sorprende piacevolmente con un nuovo romanzo storico. Se ne Il Normanno l’autrice ci aveva
condotti nell’affascinante ed altrettanto intrigante mondo medievale, e
precisamente nell’Irpinia contesa e divisa tra normanni e longobardi, ne Il fiore del Carso la sua attenzione si focalizza sul Friuli Venezia Giulia e
sulle zone di confine.
In un’Italia dilaniata da
due guerre mondiali, dall’occupazione nazista, ma anche dai conseguenti intensi
bombardamenti aerei delle forze alleate anglo-americane accorse per evitare che
l’intera Europa ed il resto del mondo venissero conquistati e germanizzati da
Hitler ed eventualmente annessi al Terzo Reich, tutti soffrirono gravi perdite.
I popoli di confine, tuttavia e senza ombra di dubbio, furono quelli che ebbero
la peggio. Malgrado l’alternarsi di
eventi di ogni tipo, drammatici in primis, e la presenza di numerosi personaggi
ognuno dei quali occupa un posto di rilievo nella narrativa, tema fondamentale
e vero protagonista di questa bellissima opera letteraria è la delicata
questione delle etnie di frontiera.
Fascisti e nazisti che
credettero nell’ideale di un nuovo grande impero che tramite le terribili leggi
razziali sarebbe stato ‘ripulito’ da ogni ‘impurità’ etnica e non solo;
comunisti, italiani e della Jugoslavia di Tito; partigiani che a questi ideali
si opposero con tutti i loro mezzi; forze armate e servizi segreti che,
nell’ambito delle proprie competenze, cercarono di mantenere ordine e
controllare le varie attività, legali e/o illegali che fossero che si
svolgevano soprattutto nelle zone di confine, tutti rivestirono un ruolo
estremamente importante nell’evolversi degli eventi. Malcontento, tensioni,
dubbi, timori, diffidenza verso tutto e tutti furono tutti responsabili di un ulteriore
ed inutile spargimento di sangue e di perdita di vite innocenti.
E così, mentre la Napoli
degli anni del Secondo Dopoguerra si apriva al progresso ed alla prospettiva di
un futuro più luminoso che prometteva il tanto atteso benessere economico,
Trieste, la bella, affascinante e distinta città asburgica continuava a
piangere.
Il Trattato di Rapallo
del 1920 con cui la città era passata definitivamente all’Italia non aveva
risolto alcun problema, ma solo affondato il coltello nella piaga: quella che
vede da sempre i popoli di confine trovarsi ‘dall’altra parte’ o persino dalla
parte ‘sbagliata’ a causa di accordi che vengono stipulati alla fine di una
guerra e per mezzo dei quali i confini territoriali vengono ridefiniti tra i
vari governi, costringendo gli abitanti di tali zone a trasferirsi per non
rischiare di perdere la loro identità nazionale, le proprie radici, le proprie
tradizioni. Benché qualcuno tra i più audaci decida di disertare proprio
durante la guerra per non rischiare di trovarsi a combattere contro quelli che
considera a tutti gli effetti ‘propri fratelli’ o opta “per cambiar vita e
gettarsi alle spalle le esperienze del passato” (Davide, 2020, p. 23), le
ferite restano.
La Natura, vissuta
appieno da Davide, personaggio principale del romanzo, attraverso le escursioni
speleologiche, offre ovunque il suo grande fascino, ma anche se le grotte e le cavità
in fondo si somigliano tutte ed affascinano nella stessa misura, quelle del
Carso nascondono un doloroso segreto: l’essere state utilizzate per eccidi
compiuti ai danni sia di militari sia di civili italiani autoctoni, della
Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, durante la Seconda Guerra
Mondiale e nell’immediato Secondo Dopoguerra da parte dei partigiani jugoslavi
e dell’OZNA, il Dipartimento per la Protezione del Popolo, appartenente ai servizi
segreti militari jugoslavi.
Malgrado la triste
consapevolezza che tramite il Piano Alabarda in caso di occupazione da parte
dell’URSS del Friuli Venezia Giulia anche Trieste sarebbe stata abbandonata al
suo destino e persa per sempre perché lo Stato italiano non avrebbe mosso un
dito al fine di evitare ulteriori guerre, il dolore più grande lo provarono
proprio gli abitanti dell’Istria il cui pensiero viene riassunto da Fioretta
Filippaz, profuga, con queste parole: “Oggi come allora rimane l’amarezza e
il rimpianto per quel focolare e quella terra che ho invano cercato senza mai
trovarne l’essenza per lenire il dolore di quell’abbandono.” (Davide, 2020,
p. 351 – cit.)
Nonostante la gravità
degli eventi menzionati nel racconto, Il fiore del Carso è anche, nella
sua essenza più profonda, un romanzo scritto con il cuore e pieno d’amore:
amore per la propria famiglia, per la propria terra, per le proprie radici, per
quei valori universali che rendono la Vita degna di essere vissuta ed
apprezzata… ed in cui, tra ricette tipiche campane ed istriane e paesaggi che
riscaldano l’anima, la Vita continua mentre ci si innamora e ci si perde negli
occhi dell’altro/a sognando il paradiso.