Thursday, November 20, 2025

Francesco Cocon: Il taglio del rasoio




Il Paese gira come il tornio di un vasaio e il ladrone è padrone delle ricchezze. Il Nilo scorre, ma non si ara perché ognuno dice: non si sa quel che avverrà.
Ipu-Ur, IX dinastia
«Allora, quando sarebbe avvenuto l’assassinio?» Michelangeli sollevò lo sguardo dal cadavere, incontrando gli zigomi lucidi di sudore del collega.
«In un’ora indefinita tra il tramonto e l’alba, più o meno cinquemila anni fa.»
Scorgendo una smorfia nel viso dell’altro, Michelangeli si affrettò ad aggiungere:
«Considerati i riferimenti graffiti sulla lastra di pietra, si può presumere che la stirpe di ladri a cui appartenevano questi uomini non fosse posteriore alla IX dinastia. Comunque non prima del 2500 avanti Cristo. Per quanto riguarda la causa della morte, osserva quei fori nella calotta cranica e quella slabbratura dei tessuti al di sopra del pomo d’Adamo: il suo compare, dopo avergli tagliato la gola, per maggiore si curezza gli ha sfondato la testa con un sasso appuntito». Michelangeli sollevò il ciottolo di granito a forma di pera che aveva trovato accanto al cadavere. «Con questo».
Benedetti esaminò la pietra come se dovesse contenere una sorpresa, poi con un’estremità ci si grattò la nuca.
«Mi sembra un po’ azzardato.»
«No, se hai la spudoratezza di collegare tutti gli elementi» rispose
Michelangeli, riprendendo la pietra e ripulendola dalla forfora. «Forse i fatti si sono svolti in maniera più semplice di quanto prevediamo. Una notte di cinquemila anni fa, due ladri di tombe trovano il modo di entrare in questa piramide. Probabilmente utilizzano la stessa apertura che abbiamo sfruttato noi. L’entrata doveva essere nascosta già allora, perché i due trovano i sigilli delle prime camere intatti. Orgogliosi della loro scoperta, lasciano le loro firme graffite su quella lastra di basalto, permettendoci così di datare la loro impresa.»
«Amunr “il merlo” e Khuta, “il leone” aggiunse Benedetti, sedendosi su un blocco di diorite.»
«Di certo sono degli pseudonimi» proseguì Michelangeli.
«In ogni caso, i due penetrano nella prima e nella seconda camera, trovandole vuote. La loro frustrazione si muta nella speranza di trovare, nella camera del sepolcro, un bel mucchio d’oro tra le bende della mummia.»
«Per nostra fortuna, nessuno dei due vive tanto da rompere i sigilli.»
Michelangeli prese fiato. L’aria era metallo fuso che scioglieva i polmoni.
«Precisamente. A questo punto accade l’imprevisto: una lite sulla divisione del bottino, oppure i due vengono scoperti. L’ipotesi più probabile, considerate le posizioni dei corpi, sembra essere quella di un assassinio per tradimento. Uno dei due si accinge ad aprire la porta del sepolcro, ma l’altro decide di tenersi tutto per sé. Mentre il compagno gli dà le spalle, l’assassino estrae un pugnale di rame e gli taglia la gola.
Non soddisfatto, completa l’opera con questa pietra.» Benedetti ruotò la testa stringendosi il collo dietro le orecchie. Erano tre giorni che lavoravano come schiavi ed ogni momento era buono per alleggerire il corpo dalla pesantezza accumulata.
«Ma non esce mai vivo da qui.»
«È qui che il tempo confonde i fatti» sentenziò Michelangeli, agitando la pietra nell’aria. «L’assassinio pulisce il pugnale dal sangue, raccoglie i suoi attrezzi e si prepara ad uscire, ma non riesce ad oltrepassare la soglia della prima camera. Escludo che sia stato scoperto. Non avrebbe perso tempo a radunare le sue cose. Inoltre il suo corpo non sarebbe più qui. Non riesco nemmeno ad immaginare un crollo o qualcosa del genere. Il corpo è intatto. Eppure una causa ci dev’essere stata.»
Benedetti si alzò. Con un movimento sgraziato tese la lampada al collega.
«Forse tutto quello che hai raccontato non è mai accaduto, o è accaduto solo in minima parte. Ma delle legioni dei “forse” è pieno l’esercito dell’archeologia. Vuoi venire, o preferisci rimanere a vegliare una mummia sgozzata per tutta la notte?»
Nella sala seguente le braccia del secondo corpo stringevano con la tranquilla disperazione della morte un fascio di fibre carboniose. La pelle dell’uomo era una pellicola nera che aderiva alle ossa dello scheletro come un velo di gomma teso, il ghigno dei denti e il cranio rovesciato all’indietro facevano pensare ad una dolorosa agonìa.
«Sarà un lavoro infame estrarre il materiale che stringe tra le mani.
Quelle dita sembrano saldate attorno» disse Michelangeli, prima di calare il telo di nylon che costituiva la protezione all’unico accesso.
Dopo l’atmosfera opprimente dell’interno, l’aria del tardo pomeriggio li accolse come una liberazione. Trascinando i piedi nella sabbia ancora calda i due archeologi si avviarono verso la base. Ai piedi di un semicerchio di dune pietrose, le tende dell’accampamento deserto, gonfiandosi di una luminosità malata, assorbivano il colore dell’ultima luce del tramonto.
Alle persone malferme in salute, la visita dell’interno delle piramidi non
è consigliabile causa l’aria calda e mefitica.
Baedeker, 1934
Con la lentezza che il deserto fornisce ai gesti della vita quotidiana, i due avviarono la sequenza di brevi rituali che avrebbe avuto il suo compimento nella consumazione della cena. Nelle pause che separavano un’azione dall’altra, l’unica alterazione al silenzio era data dagli schiocchi di qualche contenitore metallico che si raffreddava.
«Quello che non capisco» disse Benedetti, mentre preparava il the «è la tua leggerezza deterministica.»
«Come?» fece Michelangeli, distratto.
«La facilità con cui trai certe conseguenze» rispose Benedetti, rallentando il flusso di parole. «Determinismo a buon mercato. Entriamo in una piramide e ci troviamo tra i piedi due corpi mummificati. Il primo ha la testa malridotta ed il secondo stringe qualcosa di indefinibile. Da questi elementi, dopo appena un’occhiata, riesci a cavarci una vicenda da far invidia a uno scrittore di gialli.»
«Non mi sembra di aver inventato nulla.»
Benedetti emise un risolino acido. «Questo lo dici tu. Hai a disposizione una manciata di fatti, li trasformi in effetti e ti precipiti ad incollarci un mondo di cause. Non vorrai farmi credere che trovi le tue deduzioni così ovvie.»
Michelangeli represse una bestemmia, mentre uno schizzo di the bollente gli centrava un palmo.
«Non vedere tutto così semplice. Sto valutando diverse possibilità, cerco di scoprire dei collegamenti. D’altronde le categorie dell’esperienza a cui…»
«Categorie!» sbuffò Benedetti sedendosi. «Kant ci ha insegnato che le categorie che caratterizzano l’esperienza sono lo spazio, il tempo e la causalità. Nel tuo giallo zoppicante il tempo è diluito in un mare di cinquanta secoli, mentre lo spazio si è attorcigliato attorno a tutto ciò che può essere successo in quelle due camere allora e nel frattempo. Per quanto riguarda la casualità, ci sono tante di quelle cause che potrebbero stravolgere la tua versione dei fatti non una, ma dozzine di volte. Non puoi inferire nessi di causa ed effetto così alla leggera, desumendoli solo dalla posizione di due corpi.»
«Quali altre cause?» rispose aspro Michelangeli, che si sforzava di rimanere calmo. «Citamene alcune.»
Ignorando le parole del collega, Benedetti iniziò a sorseggiare il suo the. Per esperienza, Michelangeli sapeva che nel suo momentaneo rilassamento l’altro non sarebbe stato in grado di dire nemmeno la sua età, e godeva nell’incalzarlo. Ripeté più volte la domanda. Benedetti strabuzzò gli occhi, tossì, lacrimò e buona parte dell’ultimo sorso gli colò ai lati delle guance.
«Non… non sta in piedi. Il tuo delitto non ha né capo né coda. Innanzi tutto il movente: perché il presunto assassino avrebbe dovuto ammazzare il suo compagno? A quei tempi i ladri appartenevano a grandi famiglie, in molti casi erano fratelli di sangue. Anche se non ci fosse stato un legame così forte, un simile avvenimento prima o poi sarebbe stato scoperto.
Inoltre non abbiamo trovato tracce del pugnale con cui affermi che la vittima sarebbe stata sgozzata. La presenza di un sasso appuntito accanto ad un morto non è sufficiente.» Benedetti si alzò. Una smorfia malevola gli storceva le labbra verso il naso camuso. Diede un calcio alla tazza di the e si avviò verso la sua tenda. Tornò indietro poco dopo: il suo viso stravolto dalla stanchezza era una maschera da tragedia che si deformava al ritmo sonnolento della fiamma.
«Ma soprattutto, mio caro, la tua storiella misteriosa viene a crollare per il fatto che non regge sull’ultimo punto, il più importante: chi ha ucciso l’assassino?
La terra è nella tua mano
Come tu li hai creati.
Se tu splendi, essi vivono
Se tu tramonti essi muoiono.
Tu sei la durata stessa della vita
E si vive di te.
Ekhnaton, Inno ad Aton, XVIII dinastia Michelangeli rimase ad osservare le ultime isolette di brace del fuoco che lentamente affondavano in un mare di cenere. Il corso delle sue riflessioni, partendo da una medesima origine, si divideva in due linee parallele. Il punto di inizio era costituito dalla sagoma nera della piramide che oscurava le stelle con la sua pulita geometria di minuscola montagna. Nel buio cercò di distinguere i contorni degli spigoli calcarei che di giorno tagliavano l’orizzonte con la loro nettezza. Era un orizzonte ingannevole, che il vento durante la notte provvedeva a modificare rimescolando il falso ordine delle dune sabbiose. Strana sabbia egiziana, rifletté, facendola scorrere tra le dita: in superficie la sua imponderabilità assecondava labili mutamenti al paesaggio da un giorno all’altro, mentre in profondità celava l’ignoto nei resti di una civiltà pietrificata da millenni. Come la sabbia di quella lingua di deserto a sud di Sakkara, sulla quale tre mesi prima avevano localizzato, grazie ad informazioni poco meno che aleatorie, un cumulo di rocce simile a centinaia d’altri. Dopo aver accantonato il loro scetticismo avevano iniziato a scavare. Con la muta eloquenza della pietra era emerso il vertice di una piccola piramide. Per novanta giorni avevano spalato senza sosta, affondando in una sabbia talmente fine che penetrava attraverso i vestiti. La ricerca dell’entrata aveva tolto loro ulteriori energie, ma ora ce l’avevano fatta. La piramide conteneva tre camere. Con ammutolito stupore si erano ritrovati davanti alla camera del sepolcro. L’accesso era intatto: quella scoperta, da sola, valeva anni di ricerche. I sigilli sulla porta recavano i cartigli di un faraone di nome
Khety. Tra breve, come era accaduto a Carter con la tomba di Tu-than-kamen, a Reisner e agli altri prima di loro, avrebbero goduto il raro privilegio di entrare in una sala sepolcrale intatta.
E nelle anticamere avevano trovato i due corpi. Il loro stato di conservazione era eccezionale. Egli sapeva che all’interno del sepolcro la mummia del faraone non avrebbe goduto della stessa condizione. Le tecniche di mummificazione che erano giunte ad imitare la vita si erano sviluppate solo dalla XXI dinastia: almeno mille anni più tardi.
Paradossalmente, l’estrema siccità e la sterilità dell’ambiente avevano fatto sì che i corpi di due comuni ladri si mummificassero per durare, nel tempo, più della salma di colui che in vita era stato venerato come un dio.
Al di là delle emozioni che la scoperta comportava, alla cui varietà
Michelangeli ancora stentava ad adattarvisi, era il pensiero di quel ritrovamento inaspettato che nella sua mente si gonfiava con l’invadenza poderosa di un incubo. Quelle due presenze, naufragate in un’ingombrante immobilità, testimoniavano che qualcosa di oscuro era accaduto nella piramide cinquemila anni prima, qualcosa che dissolveva l’inerzia dei secoli con una forza inesauribile perché generata dalla stessa natura umana. Era come attraversare un braccio di mare dell’oceano del tempo, la cui profondità era stata dimenticata: quelle due mummie galleggiavano su un mistero che egli era deciso a far emergere, riportando in superficie le ultime azioni della vita che avevano contenuto, fornendo parole alle loro espressioni liquefatte.
Prima estraggono una parte del cervello dalle narici con un uncino di ferro, iniettando un medicamento in quel che rimane del cervello stesso.
Poi, con un coltello, praticano un’incisione nel gluteo, tolgono le interiora e puliscono la cavità addominale sciacquandola con vino di palma e spezie. Riempiono quindi il ventre con mirra tritata ed altri aromi, e ricuciono l’incisione.
Erodoto, 450 a.C. L’inizio del giorno seguente pose fine al gelo della notte con la scarna metodicità di chi non ha mai avuto fretta. Dopo l’illusoria frescura dell’alba, il disco del sole schizzò in alto penetrando la sabbia con un calore opprimente e appiattendo le energie in una confusa ricerca di uno spicchio d’ombra. Terminata la colazione, Benedetti si calzò il cappellaccio di paglia in testa e squadrò a lungo il collega più giovane.
«Facciamolo.»
«Facciamo cosa?» rispose Michelangeli, che stava annotando alcuni particolari da verificare sul cadavere del presunto assassino.
«Rompiamo i sigilli. Entriamo nell’ultima camera, e vediamo cosa c’è dentro.»
Michelangeli richiuse il libricino degli appunti in fretta, come per freddare un moscerino che si fosse acquattato tra le pagine. «Senza aspettare Pollini?»
«Perché no?» Ribatté l’altro, sicuro di sé. «Ci prepariamo il sito con tutta calma, completiamo il rilievo topografico e la catalogazione Poi riprendiamo tutta l’operazione. Niente che non farebbe Pollini, in ogni caso. E meglio, per giunta. Noi il sito lo conosciamo meglio di chiunque altro. Inoltre nessuno ci disturberà: siamo soli, lo sciopero degli scavatori terminerà fra due giorni.»
Michelangeli iniziò a giocherellare con la matita nella sabbia. Già, niente che non farebbe Pollini. In questa maniera, aprendo per primo la camera del sepolcro, Benedetti, professore incaricato, si sarebbe preso tutto il merito del ritrovamento. In più avrebbe potuto rivendicare il diritto di scrivere il suo nome per primo nelle pubblicazioni che sarebbero apparse sul Bollettino della Società Archeologica. In tale operazione, Michelangeli non ricavava per sé che una sola conseguenza: semplice assistente, egli sarebbe rimasto fuori, perché Pollini, titolare della cattedra, non avrebbe sopportato l’affronto di figurare terzo nella lista del ritrovamento. Il suo nome sarebbe rimasto in fondo, tra i ringraziamenti, oppure seminascosto nella giungla della bibliografia. Già più di una volta Benedetti si era intromesso nelle sue ricerche, con il solo scopo di sfruttare i suoi lavori per pubblicazioni proprie. No, concluse con astio crescente, questa volta non mi freghi.
«Non mi sembra per niente una buona idea.»
Benedetti alzò la testa dalla piantina che si era messo a studiare.
«Come fai a dirlo?» sibilò. Il tono era quello di un padre insicuro che sgrida il figlio che ha fatto pipì addosso. «Come fai a valutare così, senza elementi, le possibilità di un’apertura di sepolcro? Hai esperienza di tombe interne? Hai mai eseguito un’apertura? Caro il mio assistente, ne dovrai masticare di polvere, prima di sparare affermazioni così sconclusionate.»
Benedetti si fermò, ansimante. Per un attimo Michelangeli pensò che si mettesse a sbavare.
«E adesso ascoltami. La devi finire con quella storia dell’assassinio. Con le tue masturbazioni poliziesche stai diventando sbadato. Cerca sempre di rammentare che quella dello scavo non è un’arte, ma una scienza. Altrimenti terminerai la tua carriera accademica per iniziare quella di investigatore privato.»
Michelangeli non rispose nulla. La sua attenzione si soffermò sul collo gonfio del collega, su cui era apparso un arcipelago di macchie rossastre. Come duellanti sfiniti, i due rimasero immobili e silenziosi, mentre un refolo di vento smussava, mutandola senza fretta, la cresta di un’alta duna.
Una scoperta archeologica non ha senso in se stessa: lo acquista solo attraverso l’interpretazione.
S. Mercer, The pyramid texts in translation, 1952
Michelangeli si sforzò di ricordare dove aveva letto quella frase. Doveva essere un manuale inglese. Interpretazione. Ecco su cosa si doveva concentrare, a costo di negarsi il sonno. Avrebbe risolto il segreto dei due ladri e scoperto ciò che rendeva la loro vicenda così importante. Tra quei tessuti disidratati sentiva covare un’energia che, dopo quasi cinquemila anni, ancora continuava a cibarsi dei resti della più irresistibile tra le passioni umane. La bramosia dei due ladri di possedere un tesoro in oro puro aveva imparato attraverso i secoli a sfruttare la razionalità dell’uomo moderno, camuffandosi in indagine scientifica. Dietro il desiderio di studiare un sepolcro intatto avvertiva un’ansia senza nome, che risiedeva nei frammenti d’eternità imprigionati in quei corpi mummificati. Ed egli era deciso a dare loro la libertà. Pochissimo si sapeva della IX dinastia. Le uniche notizie al riguardo, oltre i rari cenni di Erodoto, erano quelle pervenute attraverso la frammentaria trascrizione di uno scriba di nome Manetone. Nella sua cronaca Manetone narrava qualcosa a proposito del faraone Kbety o Akhtoes, il re più cru dele che l’Egitto avesse mai conosciuto. Questi, dopo aver sconvolto il popolo con atrocità inenarrabili, fu punito dagli dei con la pazzia e cadde nel Nilo, dove fu divorato da un coccodrillo. Finora non era mai stata trovata una piramide che si riferisse a quel periodo.
Le prime ore del pomeriggio si srotolavano lente come la lenza di un pescatore addormentato. Benedetti riposava nella sua tenda.
Michelangeli avrebbe goduto per qualche tempo di una certa libertà. Prese attrezzi e materiale fotografico ed entrò nella piramide.
Dopo il lungo cunicolo iniziale un pozzo praticato nel pavimento immetteva nella prima camera. Michelangeli aspettò che il cuore gli si calmasse e si fermò a respirare profondamente. L’aria era così densa che gli sembrava di respirare uno sciroppo incandescente. Non aveva portato con sé la riserva di ossigeno: non doveva oltrepassare i trenta minuti di permanenza. Si chinò sul petto della mummia di colui che aveva definito l’assassino e cominciò il suo lavoro. Durante la notte aveva preparato un piano di investigazione. C’era da verificare se nel materiale stretto dalle dita dell’uomo ci fosse traccia di metallo: ciò avrebbe confermato l’ipotesi del pugnale. Il fascio di fibre racchiuso dalle falangi si sgretolava al solo tocco del pennello. Prima di sollevare una mano della mummia ricoprì la zona con due rullini di fotografie.
Dopo un’ora di lavoro riuscì ad isolare una massa fibrosa che aveva l’aspetto di una pezza di lino ripiegata. Estraendola, notò una scaglia nerastra che spuntava da sotto una gamba della mummia. Con infinita cautela la raccolse. Si trattava di una lama di ossidiana. Il vetro, scheggiato ad arte, aveva mantenuto il taglio di un rasoio.
Controllò l’ora. Era stato all’interno della piramide più tempo del consentito. Sentiva i movimenti impacciati, in bocca gli ristagnava un sapore metallico. Sistemò i reperti in una custodia pneumatica e raccolse gli attrezzi. Ripercorrendo la strada verso la superficie si accorse che una febbre leggera gli sollevava i peli delle braccia. Non ci fece caso, come non diede peso allo sguardo ironico con cui Benedetti lo accolse all’accampamento. Non parlò, non ne sentiva alcun bisogno. In quel momento era altrove, lontano da misere scaramucce personali o accademiche. Voleva gustarsi appieno quella sensazione di estrema leggerezza che dilatava, attraverso il tempo, la sua percezione del mondo. Il fatto di possedere quella lama e la soddisfazione di aver frantumato il muro dei secoli con la forza dell’intuizione faceva evaporare in una nebbia leggera tutto il resto, accompagnandolo con gentilezza materna lungo la strada della verità.
Durante la XVIII Dinastia, per le loro tombe i faraoni non utilizzarono più piramidi e si fecero scavare il proprio sepolcro in luoghi nascosti nella roccia di valli solitarie. Ma la piaga dei violatori di tombe in quel periodo di corruzione statale non ebbe fine […] ladri agivano d’accordo con le guardie e gli alti funzionari. I sacerdoti rimasti fedeli cercarono di mettere in salvo i corpi dei loro re trasportando le salme di notte, segretamente, in un altro sepolcro. Le mummie cominciarono così a peregrinare da una tomba all’altra, a volte ammucchiate in una stessa tomba. Inizia così l’odissea delle “Mummie vaganti” che, tagliuzzate dai saccheggiatori, squarciate e derubate, vennero trascinate da sepolcro a sepolcro per secoli interi.
C.W. Ceram, Il libro delle piramidi, 1958
«E così questa sarebbe l’arma del delitto.» Le pupille di Benedetti vagavano inquiete da un’estremità all’altra della lama di ossidiana. «È un po’ misero come pugnale.» Michelangeli si riprese il reperto prima che il collega potesse porgerglielo: «Perché, tu credi che con questa non si riesca a tagliare la gola di un uomo?» Vide sul volto del compagno la stessa sfumatura di supponenza che spesso compariva quando tentava di esporgli le proprie congetture. Sta cercando un argomento da oppormi, ma non lo trova, pensò con odio. Razza di carogna. Pur di contraddirmi sarebbe disposto a rinnegare sua madre. Benedetti, lo sguardo fisso al vertice tremolante della piramide, allargò le braccia, facendo scattare le articolazioni di una spalla.
«No, così non va. Non regge. Hai trovato una lama. E con ciò? Con le tue
“prove” potrei dimostrare tutto e il contrario di tutto. Come quei pazzi di Smyth e Noetling, che con le loro estrapolazioni sulla piramide di Cheope ricavarono raggio, volume e superficie della terra, i periodi di rotazione dei pianeti e la durata del climaterio femminile. È stato dimostrato che con i loro metodi deduttivi, dalle stesse misure si potrebbero ricavare l’altezza di Napoleone o il peso medio di una triglia di scoglio.»
Benedetti si strinse il naso bagnato con due dita. Alcune gocce di sudore, cadendo, formarono sulla sabbia microscopici crateri. Proseguì stancamente:
«Ti ostini a cercare la soluzione del tuo caso di omicidio, quando siamo circondati da una tale quantità di enigmi che non basterebbe una vita per la loro risoluzione. Stai perdendo tempo e sviando le tue energie. L’unica vera soluzione, lo scopo ultimo delle nostre ricerche» indicò la piramide
«risiede lì dentro, nella terza camera. Abbiamo tra le mani qualcosa di straordinario, e ti fermi per la strada a studiare due cadaveri incartapecoriti».
Michelangeli farfugliò una risposta qualsiasi e si allontanò. Come poteva pretendere che quell’ottuso pensasse che la risposta che egli cercava non era solo quella rappresentata dal sepolcro? Si trovavano ormai da mesi a spellarsi le dita nella sabbia, per la storia. La Storia. Quella sì che era esistita per i due ladri. La storia vera, alimentata e consumata dalla molteplicità della vita di tutti i giorni, così come si erano consumate quelle vite. C’era più umanità e più storia in quei corpi rinsecchiti che in venti mummie sepolte nell’oro. Erano le emozioni che facevano gli uomini e la storia, e le emozioni si raggiungono con il cuore: non sempre il cervello è sufficiente. Egli sarebbe arrivato alla soluzione con il cuore. Ma questo Benedetti, accecato dall’aridità del suo metodo scientifico, non l’avrebbe mai capito.
L’iscrizione, ormai illeggibile, era davanti a noi. E quell’indicibile mistero sarebbe ora svelato se il tempo non gli avesse accumulato attorno, come i granelli sul gorgo di sabbia di una clessidra, un’indecifrabile girandola di nulla.
E. Taylor, Memorie, 1927
La luce del sole che scivolava sull’orlo di una duna affilata raggiunse il dorso dello scarabeo di granito, esaltando il luccichio nero dei cristalli di mica. Michelangeli passò l’indice lungo il margine dell’insetto, seguendo le scanalature delle elitre fino alla testa a bocciolo, con la coscienza di ricalcare lo stesso percorso dell’utensile dell’artista. Forse anche il luogo è lo stesso. C’è solo una differenza di cinquemila anni, pensò. Prese la lente e studiò il ventre piatto dell’animale. In uno spazio di pochi centimetri quadrati lo sconosciuto scultore aveva inciso tre file minute di figure.
Aprì il taccuino in cui aveva riassunto i risultati delle sue osserva zioni. Alcuni geroglifici, specie quelli ai margini, erano poco visibili, ma per il resto non sembravano esserci dubbi. L’iscrizione diceva: “Altri fuochi saranno consumati nel santuario per soddisfare le mie greggi”.
Aveva tutta l’aria di essere un’esortazione di prosperità, o il responso di qualche oracolo. Cercò di ricordare dove poteva aver visto un’iscrizione simile. Se le greggi fossero state quelle celesti, poteva trattarsi di un augurio per l’anima di un defunto. In questo caso l’accensione dei fuochi assumeva il significato di conservare la memoria del morto nell’aldilà. Michelangeli ripose lo scarabeo nella sua custodia. Ripensò alle circostanze che lo avevano portato alla scoperta di quell’oggetto tra i denti della vittima: in un primo momento l’aveva scambiato per la lingua della mummia. Forse prima di morire l’uomo, sospettando il compagno, aveva voluto nascondere l’amuleto su di sé, in quanto prova inconfutabile che la terza camera conteneva il tesoro. Ma poteva essere stato anche un atto inconsulto. Michelangeli chiuse il blocco su cui aveva riportato il disegno dei geroglifici. Ora l’interrogativo che più gli premeva, anche in seguito ai continui punzecchiamenti di Benedetti, era quello riguardante la morte dell’assassino. Chi poteva aver ucciso il ladro che era in procinto di uscire dalla piramide? Una terza persona? Per quale motivo questo terzo individuo, dopo aver ucciso, non aveva rivolto la sua attenzione alla camera del sepolcro? Quest’ultima domanda era la più difficile. Nella valutazione di tutti i casi possibili, Michelangeli era giunto a non porre più in dubbio l’esistenza di un terzo uomo. In tal mo do si aggiungeva un secondo assassinio alla vicenda. Anche se il cranio dell’assassino era intatto, nulla poteva dirsi per il torace. Eventuali tracce di coltellate nell’addome, dopo cinquemila anni, sarebbero risultate invisibili, mimetizzate con l’incresparsi dei tessuti. Un esame del corpo avrebbe richiesto strumenti più accurati di una semplice indagine visiva. E i risultati non avrebbero apportato maggiori chiarimenti sulla causa della morte.
Mummia è ciò che si trova nelle tombe di uomini imbalsamati.
Hortus Sanitatis, 1557
Benedetti, chino sul computer portatile, sembrava uno scimmione capitato per caso nell’accampamento che fosse stato attratto dalle finestrelle color pastello dello schermo.
«Hai completato l’ultimo file?» chiese, senza alzare la testa.
Michelangeli, domandandosi come facesse a muovere quelle dita così ingombranti sulla tastiera, gli si avvicinò.
«Quale file?»
«Quello del settore dodici.»
«Perché?» chiese a sua volta Michelangeli, soddisfatto di aver trovato una maniera di non rispondere al collega. Benedetti bloccò le dita a mezz’aria, come se fosse stato colto da un’improvvisa paralisi. Con uno sforzo smisurato abbassò le palpebre. Le sue labbra emisero un interminabile fiotto d’aria.
«Come, perché? Per il semplice fatto che prima dell’arrivo di Pollini dobbiamo terminare la planimetria. Si dà il caso che abbiamo scoperto una piramide. O te lo sei già dimenticato?» Michelangeli agitò furiosamente le mani fra i capelli: «È che ho avuto parecchio da fare».
Benedetti non rispose. Si limitò a serrare le labbra, che sbiancarono l’una sull’altra, e fissò un punto al di sopra della piccola muraglia delle dita sospese. Per un attimo il vento fu l’assoluto padrone dell’accampamento: si udiva solo il suo effetto di spinta sui granelli di sabbia. Alla fine Michelangeli si scosse. Sospinto dai suoi stessi movimenti si trascinò nella sua tenda. Da lì poteva osservare l’entrata della piramide. Al suo interno, il tempo ed il silenzio custodivano un segreto che tra poco sarebbe stato svelato per opera sua.
Io sono l’inizio e la fine del genere umano. Non esiste mio simile, né mai esisterà.
Ankhtyfy, IX Dinastia
«Te lo ricordi il rasoio di Occam?» La nuca di Benedetti, per il movimento delle braccia che manovravano la corta pala, oscillava avanti e indietro.
Michelangeli non rispose. Continuava a fissare quella nuca su cui perle di sudore formavano luccicanti oasi d’acqua tra i radi capelli. L’altro si sollevò sulle ginocchia, alzò la testa e si terse il sudore dalla fronte con un fazzoletto lurido.
«Di’ un po’, te lo ricordi, o no?» Michelangeli continuava a tacere, lo sguardo agganciato al nulla. Un rasoio… Benedetti si passò la lingua sul labbro inferiore. Una lingua straordinariamente grassa, osservò Michelangeli, stupito di non averlo mai notato prima. Senza intervento della sua volontà la bocca gli si svuotò da sola: le sillabe gli saltellarono fuori dai denti evaporando in rapide onde di calore.
«Pluralitas non est ponenda sine necessitate.»
Benedetti si volse a metà e sorrise. «Bravo. Vuoi una mano per la traduzione?»
Michelangeli si chinò a raccogliere le spatole. Prima di porgerle al collega si fermò, valutando la lucidità di un riflesso di luce su una delle lame:
«Non cercare complicazioni se non è necessario.»
«Più o meno. Nel tuo caso, io tradurrei così: perché inseguire soluzioni complesse quando tutto è così semplice?» Benedetti sfilò una delle spatole dalla mano dell’assistente e cominciò a staccare il primo sigillo. La sua nuca ricominciò ad oscillare, questa volta più pigramente. «Quei due corpi incartapecoriti ne sono la dimostrazione lampante. Occam stesso, se potesse, li prenderebbe come esempio. Attraverso alcune tracce che si possono definire occasionali hai ricavato una teoria di coltelli, sassi, tradimenti e omicidi a ripetizione. Perché non riportare tutto sotto la tiepida luce della semplicità, cominciando ad eliminare tutte queste pulsioni maligne? Non c’è davvero necessità di ipotizzare tanti agguati. La natura umana non è poi così feroce.»
Michelangeli continuò a scrutare la nuca parlante di Benedetti mentre sciorinava la sua teoria. Imbecille, continuava a ripetere tra sé, come può essere così imbecille da pensare qualcosa del genere?
Anche quando dormi, vigila da te stesso il tuo cuore perché un uomo non ha nessuno nel giorno del male.
K. il saggio, XII dinastia Doveva aver inseguito i suoi pensieri con trasporto eccessivo. Riapprodò alla realtà mentre la voce dell’altro continuava la sua litania: «… a proposito di traduzioni, questa mattina ho trovato un tuo quaderno. Era aperto sulla decifrazione di un’iscrizione. Ho rintracciato il reperto e gli ho dato un’occhiata. La traduzione non è corretta. Hai interpretato il primo segno come “fuoco”, mentre si tratta dell’Ankh, il simbolo della vita rovesciato. Inoltre hai confuso il geroglifico indicante le greggi con il nome di Seth. Se avessi letto l’opera di Spiegel non saresti caduto in errore. Seth, il dio malvagio, è spesso raffigurato con un animale indefinibile, una via di mezzo fra l’asino e il cane. Alcuni ritengono che si tratti addirittura di un animale estinto. Comunque la locuzione non è “altri fuochi saranno consumati nel santuario per soddisfare le mie greggi”, bensì “altre vite saranno sacrificate nel mio santuario per soddisfare il dio Seth”».
Michelangeli si allontanò bruscamente dal suono di quelle parole cercando di concentrarsi sull’immagine del dorso dello scarabeo. Il simbolo dell’Ankh rovesciato… Seth il fratricida, il dio che aveva tradito, considerato il rappresentante del male.
I suoni che aveva davanti a sé continuavano a comporsi in parole: «Certo che quel messaggio è un po’ inquietante. Suona come una maledizione. Per di più, non si ha alcuna notizia sicura di sacrifici a Seth sotto il regno di Khety. Sacrifici umani, intendo. Quel tuo scarabeo potrebbe rivelarsi molto importante».
Michelangeli prese la sua pala per togliere il mucchio di sabbia che
Benedetti aveva accumulato dietro di sé. Si guardò le mani e un senso di estraneità lo invase. L’ultima sillaba udita gli si infilò nel petto esplodendo in un vortice di sabbia minuta. Avvertì all’interno del corpo il germogliare di dune polverose. Si tastò le braccia. Sentiva la pelle avvizzita. Si passò più volte la lingua sulle labbra: non aveva più saliva, la cavità della bocca gli si era riempita del fruscio doloroso della lingua. La porta. La testa parlante la stava aprendo. Il primo sigillo era ormai staccato. Da un forellino prodottosi al suo posto fuoriuscì un sospiro polveroso. Altre vite saranno sacrificate… Tra le mani stringeva ancora la pala. Sollevò l’attrezzo e con forza lo calò su quella nuca urlando: «TE L’AVEVO DETTO CHE NON DEVI APRIRE QUESTA PORTA» o forse lo pensò soltanto, pensò che ora le goccioline di sudore non ristagnavano più su quella nuca desertica, perché sparse nella sabbia ai suoi piedi. Il dorso di Benedetti scivolò in avanti, con un urto denso la sua fronte batté contro uno dei sigilli lordandolo di sangue, mentre le dita che stringevano la spatola si aprivano raschiando le loro unghie sulla porta del se polcro. Michelangeli lasciò cadere la pala. Nessuno. Non c’era nessuno, là dentro, a parte quel sibilo d’aria morente. Un incidente. Il sangue non lo aveva sporcato. Gli occhi di Benedetti erano rimasti aperti. In uno di essi stava raccogliendosi un piccolo cono di sabbia. La testa, un incidente. Sì, la testa, è venuto qui dentro da solo, è scivolato ed ha battuto la nuca. Un incidente. Ansimando come un animale trascinò il corpo di Benedetti fino a portarlo in un punto in cui chiunque, entrando, sarebbe potuto scivolare. Uscendo dalla camera si volse. Ebbe l’impressione che il corpo del collega, al pari delle due mummie, si trovasse lì dentro da millenni. Stava per issarsi nel breve pozzo della prima camera che l’avrebbe condotto all’uscita, quando un colpo gli penetrò la spalla sinistra, cacciandolo a terra. Cercò di rialzarsi: un’invisibile massa d’aria lo obbligò a rimanere disteso. Rotolò di fianco, incontrando la sagoma accartocciata dell’assassino. La lama che gli straziava il torace cominciò a torcersi con inesorabile lentezza verso lo sterno. Nella penombra fuligginosa brancolò, si portò le mani al petto. I battiti cardiaci erano colate di sangue che il suo cuore, in un impeto di generosità al vuoto, gettava via. Ogni boccata d’aria gli spediva nei polmoni manciate di una cenere gelida. Finalmente era giunto alla soluzione.
Con il cuore. Era tutto così semplice. Occam aveva ragione, era vero, da un’eternità era sempre stato vero. Pluralitas non est ponenda. Mordendosi a sangue un polso bloccò sul nascere un accesso di convulsioni. Si frugò le tasche cercando un fazzoletto per fasciarsi il polso. Gentile ma risoluto, il grumo che gli ostruiva l’arteria coronarica invitò il muscolo cardiaco a fermarsi. Con l’ottuso brandello di intuizione di aver trovato la risposta all’unico dubbio che gli premeva, Michelangeli volle urlare di gioia, ma capì che la sola volontà non era più sufficiente. Nel gorgo di luce ed ombra della lampada caduta oltre portata del suo braccio, contorse il corpo in modo da trovarsi di fronte al viso dell’assassino, alle sue mani disseccate strette al petto. Come nel tentativo di fermare uno squassante ingorgo biologico. Come le sue mani. Volle pronunciare un’ultima parola, ma in bocca aveva un ciottolo al posto della lingua. I suoi occhi, già velati da un seme di oscurità, videro le labbra scarnificate dell’altro sollevarsi, completando il suo ultimo pensiero inespresso, ag giungendovi del proprio una sola postilla:
«Sine necessitate. In aeternum».


Tuesday, November 18, 2025

Elinor Remick Warren

   



Elinor Remick Warren (February 23, 1900 – April 27, 1991) was an American contemporary classical composer and pianist. Her mother had been a student of a student of Franz Liszt and introduced her daughter to art music. Her father was considered a good amateur singer who had once considered pursuing a professional singing career. Warren trained as a pianist with Kathryn Cocke during high school and began taking composition lessons from Gertrude Ross in her sophomore year. She sent an early composition to the Schirmer music publishing company and received her first publishing contract with them before graduating from high school. Between high school and college, she studied piano with Harold Bauer and Leopold Godowsky. After attending Mills College for a year, she moved to New York, where she studied privately with composers Frank La Forge and Clarence Dickinson, both of whom were known for their art songs. Elinor supported herself as a singer's accompanist and toured with contralto Margaret Matzenauer.

She composed in a predominantly neo-Romantic style. In demand as both a pianist and a composer, she was a two-time soloist with the Los Angeles Philharmonic and made several recordings as a collaborator with various singers. In the 1930s, she began to work on large-scale compositions, including her piece "The Harp Weaver," a work for female chorus, orchestra, and baritone soloist, and the symphonic "The Passing of King Arthur" (later retitled "The Legend of King Arthur"). In 1940, with the success of King Arthur, she stopped performing to concentrate on composing.

She actively composed on themes of nature, especially as seen in the American West, and on mysticism. She spent much of her composing career in Los Angeles, an unusual choice at the time, as New York was considered the center of new American music. Nonetheless, her works were widely performed during her lifetime.

On June 17, 1925, she married Dr. Raymond Huntsberger in Los Angeles; they divorced four years later. In 1936, she married film producer Zachary Wayne Griffin (1907–1981), with whom she had two daughters and a son. She died at her home at the age of 91.

Another composition without Live, Suite for Orchestra (1954; rev. 1960)
The musical language of the Suite for Orchestra is neo-romantic, and in this case, finds inspiration in the vast mountain panorama that can be seen from the Corona del Valle Ranch, owned by Warren.

"At our mountain ranch," writes Miss Warren, "we look out across wide stretches of desert to the rugged, snow-capped ranges of the High Sierra. The ever-changing images of the sky have particularly moved me at all hours and in different seasons. Although My Suite has no story or program behind it, the tones of the pomp of the sky and the long shadows of the mighty mountains are undoubtedly in the structure of the work. The mood of each movement is indicated by a few lines chosen from the writings of John Gould Fletcher. These poems are included on the flyleaf of the complete score of the Suite."

Elinor Remick Warren

  



Elinor Remick Warren (Los Angeles 23 febbraio 1900 – 27 aprile 1991) è stata una compositrice e pianista americana di musica classica contemporanea. Sua madre era stata allieva di un allievo di Franz Liszt e introdusse sua figlia alla musica artistica. Il padre era considerato un bravo cantante dilettante che una volta aveva preso in considerazione l'idea di cantare professionalmente. La Warren si è formata come pianista con Kathryn Cocke durante il liceo e ha preso lezioni di composizione da Gertrude Ross, iniziando il suo secondo anno di scuola superiore. Ha inviato una delle prime composizioni alla casa editrice musicale Schirmer e ha ricevuto il suo primo contratto per pubblicare con loro prima di diplomarsi al liceo. Tra il liceo e l'università studiò pianoforte con Harold Bauer e Leopold Godowsky. Dopo aver frequentato il Mills College per un anno, si trasferì a New York, dove studiò privatamente con i compositori Frank La Forge e Clarence Dickinson, entrambi noti per le loro canzoni d'arte. Elinor si mantenne come accompagnatrice per cantanti e andò in tournée con il contralto Margaret Matzenauer.

Compose in uno stile prevalentemente neoromantico. Richiesta sia come pianista che come compositrice, è stata due volte solista con la Los Angeles Philharmonic e ha effettuato diverse registrazioni come collaboratrice con vari cantanti. Negli anni '30 iniziò a lavorare composizioni su larga scala, tra cui il suo pezzo The Harp Weaver, un lavoro per coro femminile, orchestra e baritono solista, e la sinfonica The Passing of King Arthur (in seguito ribattezzata The Legend of King Arthur). Nel 1940, con il successo del King Arthur, smise di esibirsi per concentrarsi sulla composizione. 
Ha composto attivamente temi sulla natura, soprattutto come si vede nel West americano, e sul misticismo. Trascorse gran parte della sua carriera di compositrice a Los Angeles, una scelta insolita all'epoca, dato che New York era considerata il centro della nuova musica americana. Tuttavia, le sue opere furono ampiamente rappresentate durante la sua vita.

Il 17 giugno 1925 sposò il dottor Raymond Huntsberger a Los Angeles; divorziarono quattro anni dopo. Nel 1936 sposò il produttore cinematografico Zachary Wayne Griffin (1907–1981), dal quale ebbe due figlie e un figlio. Morì nella sua casa all'età di 91 anni.

Ancora una composizione senza Live, Suite for orchestra (1954 ; rev. 1960)
Il linguaggio musicale della Suite per orchestra è neoromantico e in questo caso trova ispirazione nel vasto panorama montano che si vede dal Ranch Corona del Valle di proprietà della Warren.

“Nel nostro ranch di montagna”, scrive la signorina Warren, “guardiamo ampie distese di deserto fino alle aspre catene montuose innevate dell’High Sierra. Sono rimasta particolarmente commossa dalle immagini in continua evoluzione del cielo, a tutte le ore e nelle diverse stagioni. Sebbene la mia Suite non abbia una storia o un programma alle spalle, i toni di questo sfarzo del cielo e delle lunghe ombre delle imponenti montagne sono senza dubbio nella struttura dell'opera. Lo stato d'animo di ogni movimento è indicato da alcuni versi scelti dagli scritti di John Gould Fletcher. Queste poesie sono incluse nel risguardo della partitura completa della Suite."

Elinor Remick Warren

  



Elinor Remick Warren (23. Februar 1900 – 27. April 1991) war eine amerikanische Komponistin und Pianistin zeitgenössischer klassischer Musik. Ihre Mutter war Schülerin eines Schülers von Franz Liszt gewesen und führte ihre Tochter in die Kunstmusik ein. Der Vater galt als guter Amateursänger, der einmal überlegt hatte, professionell zu singen. Warren absolvierte während der Highschool eine Klavierausbildung bei Kathryn Cocke und nahm ab ihrem zweiten Highschool-Jahr Kompositionsunterricht bei Gertrude Ross. Eine seiner ersten Kompositionen schickte er an den Musikverlag Schirmer und erhielt dort noch vor dem Abitur seinen ersten Verlagsvertrag. Zwischen High School und College studierte er Klavier bei Harold Bauer und Leopold Godowsky. Nachdem er ein Jahr lang das Mills College besucht hatte, zog er nach New York, wo er privat bei den Komponisten Frank La Forge und Clarence Dickinson studierte, die beide für ihre Kunstlieder bekannt waren. Elinor verdiente ihren Lebensunterhalt als Sängerbegleiterin und tourte mit der Altistin Margaret Matzenauer.

Sie komponierte in einem überwiegend neoromantischen Stil. Sie ist sowohl als Pianistin als auch als Komponistin gefragt, war zweimal Solistin beim Los Angeles Philharmonic und hat in Zusammenarbeit mit verschiedenen Sängern mehrere Aufnahmen gemacht. In den 1930er Jahren begann sie mit der Arbeit an großangelegten Kompositionen, darunter sein Stück The Harp Weaver, ein Werk für Frauenchor, Orchester und Baritonsolisten, und das symphonische Stück The Passing of King Arthur (später umbenannt in The Legend of King Arthur). Nach dem Erfolg von „King Arthur“ gab er 1940 seine Auftritte auf, um sich auf das Komponieren zu konzentrieren.

Sie verfasste aktiv Essays über die Natur, insbesondere im amerikanischen Westen, und über Mystik. Einen Großteil ihrer Komponistenkarriere verbrachte sie in Los Angeles, was zu dieser Zeit eine ungewöhnliche Wahl war, da New York als Zentrum der neuen amerikanischen Musik galt. Dennoch wurden ihre Werke zu ihren Lebzeiten häufig aufgeführt.

Am 17. Juni 1925 heiratete sie Dr. Raymond Huntsberger in Los Angeles; Sie ließen sich vier Jahre später scheiden. 1936 heiratete sie den Filmproduzenten Zachary Wayne Griffin (1907–1981), mit dem sie zwei Töchter und einen Sohn hatte. Sie starb im Alter von 91 Jahren in ihrem Haus.


Eine weitere Komposition ohne Live, Suite für Orchester (1954; rev. 1960)

Die musikalische Sprache der Suite für Orchester ist neoromantisch und findet in diesem Fall Inspiration im weiten Bergpanorama, das man von der Warren-eigenen Corona del Valle Ranch aus sehen kann.

„Von unserer Bergranch“, schreibt Miss Warren, „blicken wir über weite Wüstenlandschaften auf die schroffen, schneebedeckten Bergketten der High Sierra. Besonders berührt haben mich die ständig wechselnden Himmelsbilder zu jeder Tages- und Jahreszeit. Obwohl meine Suite weder eine Geschichte noch ein Programm hat, sind die Klänge dieser Himmelspracht und die langen Schatten der mächtigen Berge zweifellos in der Struktur des Werks verankert. Die Stimmung jedes Satzes wird durch einige ausgewählte Verse aus den Schriften von John Gould Fletcher angedeutet. Diese Gedichte finden sich auf dem Vorsatzblatt der Gesamtpartitur der Suite.“
 

Wednesday, November 12, 2025

I libri come specchio - Il giovane Holden

I libri come specchio: quando la lettura diventa introspezione

 

Il giovane Holden di J. D. Salinger

 

di Elisa Rubini

 

 


 

Ci sono libri che non ti spiegano la vita. La mostrano nuda, disordinata, scomoda. Ti costringono a guardarti davvero, a riconoscere emozioni che avevi sepolto. Leggere allora diventa un atto di introspezione. Alcuni libri non li dimentichi perché non finiscono quando chiudi l’ultima pagina. Restano, ti seguono nei pensieri, ti parlano sottovoce quando cerchi di capire chi sei davvero. Il giovane Holden è uno di questi. Quando lo prendi in mano, pensi di leggere la storia di un ragazzo ribelle. Poi capisci che quella ribellione è anche tua.

 

Holden Caulfield non è solo un adolescente in crisi. È la voce di chi non si riconosce nel mondo che lo circonda. È la stanchezza di chi si sente diverso, la rabbia di chi non vuole diventare come “gli altri”, la tenerezza di chi cerca autenticità in un mondo pieno di maschere. Quante volte, come lui, abbiamo sorriso per abitudine? Quante volte ci siamo sentiti fuori posto, anche in mezzo alle persone? Holden ci costringe a chiederci: quando abbiamo smesso di dire la verità? Quando abbiamo iniziato a fingere solo per essere accettati?

 

Salinger non racconta solo una storia. Ci mette davanti alla paura più grande: crescere e perdersi. Perché crescere non significa solo diventare adulti. Significa scegliere ogni giorno se restare fedeli a sé stessi o cedere alla convenzione, all’abitudine, al silenzio. Il mondo di Holden è pieno di “falsi”, ma il suo dolore è autentico. E nel suo modo sgraziato di raccontarsi riconosciamo la nostra stessa vulnerabilità. Ogni volta che giudichiamo gli altri per sentirci migliori, ogni volta che ridiamo per non piangere, stiamo parlando la sua lingua.

 

E allora il romanzo diventa specchio. Non solo racconto di un ragazzo, ma ritratto di ognuno di noi quando non sappiamo più da che parte stare. Perché certi libri colpiscono così tanto? Perché non parlano solo “di altri”. Parlano di noi, del bisogno di restare veri, anche quando tutto ci spinge a recitare.

 

Il giovane Holden ci lascia un monito sottile ma profondo: non lasciare che il mondo ti renda uguale agli altri. Non dimenticare la voce che ti fa sentire vivo, anche se a volte ti fa sentire solo. Leggere questo libro è un’esperienza che continua nel tempo. Ti accompagna quando scegli se dire ciò che pensi o tacere, se essere autentico o accomodante. È un promemoria gentile e insieme doloroso: non diventare ciò che disprezzi.


Monday, November 10, 2025

Linda Maria Messina: Mio caro...





Mio caro, 
sono molto felice di ricevere questa lettera, ma anche piuttosto stupita perché mi sembra di leggere tra le righe un certo scontento. Credevo che tu fossi assolutamente felice. Hai ottenuto tutto quello che volevi: una separazione pacifica (sei stato anche molto generoso, grazie); una nuova, giovane compagna e un rapporto d’amicizia con me, che per tanti anni sono stata tua moglie, amica e confidente. Dunque, perché non sei felice, amico mio? Spero di sbagliarmi, spero che sia solo un momento di malumore, ma sappi che io sono qui, pronta ad ascoltare le tue confidenze. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
credo proprio che tu dia corpo alle ombre. È ovvio che la tua nuova donna gradisca la compagnia dei suoi coetanei; è giusto che non rompa i rapporti con i vecchi amici (anche tu hai mantenuto i contatti con me); è assurdo che tu ti risenta per questo. Sono anche sicura che alla tua non più verde età tu non muoia dalla voglia di andare a ballare fino alle ore piccole e rammento come amavi stare con me, in penombra ad ascoltare musica classica, ma i tempi cambiano, le persone anche e, quindi, ti consiglio di adeguarti ai desideri della “ragazza” (non rammento mai il suo nome, scusami) e non vedere tradimenti dove, quasi certamente, non ci sono. 
A presto, Emma.

Mio caro,
è veramente irragionevole da parte tua fare tante storie per qualche piccola bugia. Io credo che la ragazza sia stata costretta a dirla dalla tua continua gelosia; in fondo non è poi così grave che sia andata a passare il fine settimana con i suoi amici dicendoti che andava dalla sua mamma. Tu sei stato viziato dalla mia assoluta sincerità e non sai difenderti da comportamenti diversi. È vero che tra amanti (scusa se non mi viene altro termine, ma è quello giusto, no?) bisognerebbe evitare le menzogne, ma tu sei sicuro di essere completamente sincero con lei? Forse sì. È vero che noi non desideravamo altro che stare sempre insieme, ma non tutti sentono nello stesso modo. È vero che tra quegli amici c’era anche il suo vecchio fidanzato, ma… non mi viene niente. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
sono veramente stupita dal tono della tua ultima lettera. Non credo proprio che le tue recriminazioni siano giustificate. Questa bambina (in confronto a te e me è soltanto una bambina) vuole divertirsi, tu glielo impedisci e lei cerca di sfuggire ai tuoi controlli: tutto qui. Sono certa che non c’è niente di più, anche se… Io sono lontana, se dovessi giudicare da quello che mi dici, penserei che effettivamente… ma credo e spero che tu ti sbagli e dia corpo alle ombre, anche se ombre sostanziose ed inquietanti. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
adesso basta. Sono veramente stanca di questo tuo atteggiamento piagnucoloso e non vorrei doverti ricordare che tutti, e sottolineo tutti, ti avevamo avvertito che non sarebbe stato facile vivere con una creatura così giovane che avrebbe potuto essere tua figlia (e anche tua nipote, io credo). Inoltre la ragazza viene da uno stato di indigenza, ha trovato un uomo affascinante, colto e ricco, capisco perfettamente come abbia deciso di venire a vivere con te; non è, quindi, lei da criticare, non credi? Spero che la tua prossima lettera, se ce ne sarà una, sia più distesa e serena. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
sono veramente stupita e amareggiata dal tuo atteggiamento. Morire? Non ti capisco, avrei capito meglio “uccidere”, anche se eccessivo. Io rammento, e sono sicura che è così anche per te, quando mi dicevi che se ti avessi tradito mi avresti ucciso e, se protestavo, aggiungevi che dalle parti tue un “uomo d’onore” si comporta così. Sei veramente cambiato, e non in meglio. Voglio sperare che ti torni la grinta per cui eri famoso e che abbandoni questo modo di fare così perdente e lacrimoso. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
non vorrei proprio averti dato un’impressione sbagliata. È vero che io non sono obiettiva perché ti ho molto amato ed ho molto sofferto nel vederti preferire una sciocchina, fatua, presuntuosa e, io credo, più innamorata dei tuoi soldi che di te, ma non vorrei mai spingerti a fare qualcosa di assurdo come “vendicare il tuo onore”. L’onore è il bene più prezioso, dicevi tu, ma anche saper accettare di pagare i propri errori (e tu hai certamente sbagliato) è segno di grande maturità. 
A presto, Emma.

Mio caro, 
non sto affatto cercando di dirti che devi fare il “cornuto compiacente” (sono parole tue), anzi, ma credo proprio che tu non abbia alternative. Sei troppo vecchio per riuscire a rimontare la corrente; è ovvio che quella piccola… sciagurata preferisce la compagnia e, come dire, l’attività sessuale dei suoi coetanei. La cosa più grave, quella per cui io soffro veramente è pensare che sicuramente mentre sta con gli altri riderà di te, delle tue “defaillances” (non eri uno stallone neanche da giovane), del tuo corpo appesantito e imbolsito, magari paragonandolo a quello dei suoi giovani compagni. Già, perché mi hai detto che è più di uno, vero? Soffro per te, ma non vedo via d’uscita, o almeno l’unica possibile è così… orrenda che non voglio neanche pensarci, e tu? 
A presto, Emma.

Mio caro, 
questa tua ultima lettera mi stringe il cuore. Come sei diventato pavido e vile!
L’uomo che ho conosciuto (e amato) non avrebbe mai permesso a NESSUNO di trattarlo come questa delinquente tratta te! Mi scrivi che ti tradisce e deride e tu cosa fai per vendicarti? Mi scrivi che ti manco e vorresti tornare con me, ma per farlo dovrei essere sicura che sei tornato l’uomo di una volta, quello che cavalcava il mondo e non aveva paura di nessuno. Ci sono tanti modi per uscire da questa situazione, non sarò io a suggerirteli, ma, rammenta, se sarai capace di liberarti di lei forse, ripeto forse, la nostra vita potrà tornare ad essere serena e, oso dire, felice come tu vorresti ed io rimpiango. 
A presto, Emma.

Mio caro,
ho visto le immagini ed ho letto gli articoli che riguardano il tuo colpo di testa. Devo dire che non ne sono stupita, i tempi erano maturi e di provocazioni ne hai avute tante, ma personalmente io credo che tu abbia curato una pazzia iniziale con una pazzia estrema. Quanto a venirti a trovare in prigione, credo che non sia possibile perché sto partendo per le Maldive con il mio nuovo giocattolo. Bello, giovane, forte e instancabile. Non mi illudo che mi ami, l’ho praticamente comprato (ti ho detto, mi sembra, che nel divorzio sei stato molto generoso) e, se uno dei due si stancherà, ce ne saranno altri.
A mai più, Emma.
 

Tuesday, November 4, 2025

Ildebrando Pizzetti

 


(Parma 20-IX-1880 - Rome 13-II-1968)


The son of a musician, he was very precocious as a composer, completing his studies at the Conservatory of his hometown under the guidance of G. Tebaldini. After 1901, he worked as a substitute teacher at the Regio in Parma, quickly gaining recognition with some of his compositions. From 1908, he taught at the Conservatory of Florence, which he directed from 1917 to '23, coming into contact with the Florentine circle of the "Voce." In 1924, he succeeded Gallignani as director of the Conservatory of Milan, and in 1936, he moved to S. Cecilia in Rome to teach composition in the advanced class. From 1948 to '51, he was president of the Accademia di S. Cecilia. He also worked as a music critic and as a conductor of his works.


At the beginning of the century, Pizzetti turned his attention to the problem of musical theatre, opposing melodrama and giving life to a form of "opera" based on a dynamic dramatic recitative that valorizes the data of the word by making use of forms and modules often taken from Gregorian chant and the ancient Italian polyphonic tradition. At the same time, he opposed the use of elements of language derived from recent European experiences, soon adopting conservative positions and continuing to produce on a personal path, isolated from the most vibrant part of modern Italian music. His work is marked by a profound severity of movement and a thoughtful, collected lyricism, which does not disdain elements taken from certain Italian popular music, as seen in some instrumental pieces. Pizzetti's production remains interesting above all in the theatrical field, for the novelty of the criteria that informed it (among his numerous works, we recall Fedra from 1915, Dèbora e Jaéle from 1922, and Assassinio nella Cattedrale from 1958) and in the vocal and choral field. However, he is also the author of several pieces of symphonic and concert music, including a valuable quartet and other chamber music. He has published books on the music of the Greeks, on Paganini, and various collections of essays and critical studies.



Concerto dell'estate, for orchestra (1928)


The name "concerto" is perhaps more valid for the structure of the second and third movements than for that of the first, which seems more like a formally free symphonic fresco. Here, Pizzetti even makes some concessions to orchestral colorism. Still, the material he uses remains the one for which he is known: vaguely modal lines and severe harmonies without a hint of chromatism.


The first movement, "Mattutino ('Vivace e arioso'), is the most dazzling and effective page of the Concerto; it is followed by a "Notturno" ('Largo'), where the concertante element becomes more evident in the relationship between the individual instruments and instrumental groups of the orchestra; the third movement is "Gagliarda e Finale" ('Allegro vigoroso-Largamente'), with an evident connection to the ancient Italian folk dance, which Pizzetti resolves in fidelity to the harmonic and melodic spirit of the time.