Dr.ssa Maria Teresa De Donato
Naturopata Tradizionale, Omeopata, Life
Strategist, Autrice
La Ragazza di Sighet
- Da Auschwitz alla California: Una
storia di speranza -
Intervista ad Aldo Villagrossi Crotti, Scrittore e Poeta
Questo mese proseguiamo con una
seconda intervista ad un personaggio molto particolare ed altrettanto
interessante che abbiamo conosciuto a maggio: Aldo Villagrossi Crotti,
Scrittore e Poeta.
Nel nostro primo incontro, Aldo
ed io abbiamo parlato in linea generale di molti aspetti della sua attività
come scrittore e poeta, delle sue pubblicazioni e di alcune esperienze, piuttosto
uniche, legate alla sua vita e al suo lavoro.
Oggi ci concentreremo su una
delle sue opera, e precisamente su La
ragazza di Sighet – Da Auschwitz alla California: Una storia di speranza
(Edizioni Paoline, 2013), un libro che non solo merita di essere letto, ma che al
momento sta facendo parlare molto di sé in vari ambienti.
T: Ciao Aldo e ben tornato. Felice di averti di nuovo sul mio blog.
A: Ciao Teresa! Guarda che io
dall’ultima volta non me ne sono più andato dal tuo blog... comunque grazie per
non avermi ancora espulso.
T: Prego. È un piacere. Insisto che tu rimanga. 😊
Aldo, nella nostra prima intervista abbiamo accennato a questo tuo
lavoro… e, per coloro che non avessero avuto ancora l’opportunità di leggerci,
vogliamo fare un breve riassunto per spiegare come da un semplice errore di
battitura tu sia approdato alla pubblicazione di questo bellissimo libro.
A: Molto semplicemente, ho
digitato il mio nome in Google invertendo due lettere: invece di ALDO
VILLAGROSSI ho scritto ADOL VILLAGROSSI e Google mi ha suggerito “intendevi
forse ADOLFO Villagrossi? Sapendo che
Google non mi poteva proporre qualcosa che non fosse già in rete, ecco che
preso dalla curiosità ho cliccato sul suggerimento, e Google mi ha rimandato ad
una anteprima di un libro autopubblicato negli USA che mostrava per 30 minuti
al giorno tre pagine random di questo libro. Guarda caso (ammesso che il caso
esista) le tre pagine che stavo visualizzando parlavano di mio zio Adolfo
Villagrossi. Ed era indiscutibilmente
lui. Feci degli screenshot delle tre
pagine e le tradussi, mandandole a mio padre per conferma. La risposta fu di conferma: era lui, ed era
descritto benissimo. Alto, bello e con
una fisarmonica a tracolla, soldato dell’Armir al confine fra Ungheria e
Romania nel 1942. Era lui. E chi parlava di Adolfo era una signora
ultraottantenne che aveva scritto questo libro a distanza di quasi 70 anni dai
fatti, ricordando il nome di un soldato italiano che aveva cercato (invano) di
salvarla dal campo di concentramento. Lei,
Hindi (chiamata India da mio zio Adolfo), lo aveva descritto così bene che
riconoscemmo immediatamente non solo il suo aspetto descritto nel libro, ma
anche i suoi tratti caratteriali. Lei,
Hindi, sopravvissuta al campo di concentramento, finisce su una nave che la
porta a New York e in seguito in California, dove morirà il giorno dell’inizio
della stampa del libro in Italia, che fu ritardata per poter aggiungere un mio
ricordo di India/Hindi.
T: Per chi non avesse una conoscenza approfondita di luoghi, personaggi
ed eventi legati all’olocausto, potresti fornire qualche dettaglio su chi fosse
esattamente Elie Wiesel?
A: Elie Wiesel, premio Nobel per
la pace nel 1986, giornalista, scrittore, saggista di origine rumena, nato a
Sighetu Marmatiei il 30 Settembre 1928. Autore
dello struggente romanzo “La notte”. Ma
non posso dire altro, Wiesel è da conoscere senza che sia presentato più di
tanto, si presenta da solo. Tornando a
Sighetu Marmatiei, al tempo si chiamava Sighet ed era la stessa città dove
Hindi/India e mio zio Adolfo si incontrarono. Qualcuno si chiederà se Elie
Wiesel e Hindi si conoscessero. No, o
meglio: si incontrarono un giorno in California alla fine di un convegno tenuto
da Wiesel. Hindi lo avvicinò e gli
chiese se avesse memoria quantomeno della famiglia di Hindi, i Friedman.
Trovarono solo una conoscenza in comune, lo zio Szrul, che Hindi cita più volte
nel libro. D’altro canto a Sighet gli ebrei erano 10.000 e ci sta anche che un
ragazzo di 14 anni come era Wiesel non li conoscesse tutti.
T: A tuo avviso, la deportazione degli ebrei dalla città di Sighet, in
Romania, al campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, fu in qualche
modo diversa dalle altre? E se sì,
perché?
A: Non nelle modalità, ma nei
tempi, quello sì. L’Ungheria ebbe alcune
esitazioni nel concedere ai tedeschi la deportazione degli ebrei – a mio avviso
più per questioni di ricatto fra governi che non per una qualsivoglia remora da
parte degli ungheresi – proprio perché, grazie al potente partito filonazista
delle croci frecciate, godeva di una vasta ramificazione sul territorio in
grado di “gestire” le deportazioni e i ghetti con facilità. Cosa che fecero, con un certo ritardo, anche a
Sighet. La cosa successe nella primavera
del 1944, e qui comincia il ballo dei numeri: c’è chi parla di 10.000 persone,
chi di 15.000, chi addirittura di 32.000 persone deportate da Sighet e dai
villaggi intorno a Sighet. La battaglia
dei numeri dell’olocausto è la cosa peggiore che abbia mai vissuto sulla mia
pelle. Sembra quasi che quei numeri
abbiano la necessità di essere evidenziati, come se un numero alto debba
colpire di più di uno basso, come se ci fosse una graduatoria fra olocausti. Sai, ci sono due cose dell’ebraismo che si
prestano in queste occasioni, e forse è il motivo per cui gli ebrei non hanno
mai voluto realmente dare un senso alle cifre: Secondo il Talmud, ogni
generazione conosce 36 lamedvavnikim,
ossia 36 uomini dalla cui condotta dipende il destino dell'umanità. Secondo la tradizione questi svolgerebbero
lavori umili e verrebbero sostituiti dopo la morte con altri lamedvavnikim: questi eserciterebbero il
loro potere quando su Israele incombe una minaccia, per poi scomparire dopo
averla eliminata. Ecco, per un popolo
che crede fermamente all’esistenza di soli 36 uomini umili in grado di salvare
tutto il resto del mondo, non capisco per quale motivo dovrebbe fare differenza
il numero di persone uccise nei campi di concentramento. Fossero stati anche solo 100.000, è una follia
per l’intenzione al di là dei numeri. Poi,
tornando al fatto dello sterminio, una cosa di cui si parla pochissimo è la
reale motivazione per cui Adolf Hitler cerca di sterminare gli ebrei anche
quando sa benissimo che la guerra è perduta per sempre: con lo sterminio degli
ebrei Hitler tenta di unificare l’Europa sotto un unico ideale, quello
dell’antisemitismo. E in questo,
credimi, l’Europa era sostanzialmente d’accordo. E ancora oggi ne paghiamo pesantissime
conseguenze, in tutti i sensi. Se non
confessi le tue colpe vieni eroso dal rimorso, e noi europei ne subiamo le
conseguenze da più di 70 anni. Ad ogni
modo, alleati o meno che fossero, ognuno di questi paese si prodigò per rendere
questa folle idea hitleriana una concreta realtà, compresi noi italiani che nel
1938 promulgammo le infamanti leggi razziali di Mussolini, ispirate a piene
mani dai nazisti tedeschi e condivise da Mussolini grazie alle comuni ideologie
con l’alleato Hitler, ideologie che consideravano gli ebrei oligarchi massoni
che dominavano il mondo già da molti anni prima che Mussolini ed Hitler
nascessero fisicamente. Hitler lo sapeva
bene, e fu ben coadiuvato da tutti i paesi dai quali partirono le deportazioni.
Gli ebrei sono accusati, da sempre, di
essere gli uccisori di Cristo, in primis, poi di aver indicato una storia
“alternativa” a quella raccontata dai Vangeli. A tutt’oggi ci sono delle parti del Talmud
dove vengono omesse delle righe dove il lettore sa che, se lì ci fosse il testo
omesso, si parlerebbe di cose che è meglio non scrivere mai più, ma che
convenzionalmente stanno lì, due o tre righe vuote, a simboleggiare quello che
si sa ma è meglio non dire. In una
Europa cattolica e cristiana sarebbe stato facile raccogliere consensi in tal
senso. Gli ebrei untori, strozzini,
banchieri corrotti. Tutti stereotipi che
ancora oggi vediamo uscire da penne illustri in tutto il mondo. L’Europa sapeva dei campi di concentramento,
ma non fece nulla. Ed è una vergogna che
ci portiamo dietro da più di 70 anni, e dalla quale difficilmente ci
libereremo, almeno finché non si prosegue con questa aria di revisionismo a
rate che rende la nostra coscienza impermeabile ad ogni sentimento umano nei
confronti di ogni olocausto europeo.
T: Certo che – e sono completamente d’accordo con te su questo – focalizzarsi
sulle cifre entrando quasi in competizione per dimostrare chi si sia avvicinato
maggiormente al numero reale, non mi sembra solo assurdo, perché senza senso,
ma a mio modesto avviso persino oltraggioso e folle. Mi fa pensare al detto biblico “Scolare il
moscerino ed inghiottire il cammello.”
Gli sforzi, da parte di noi tutti, nessuno escluso, dovrebbero essere
indirizzati ad evitare che tragedie e vergogne simili non si ripetano mai più
piuttosto che elaborare una classifica degli olocausti. Per quanto riguarda l’Europa che in linea
generale fu unita nel partecipare all’olocausto o, comunque, non oppondendovisi
fermamente, se ne resa complice, anche questa è una triste ed amara verità.
Nella sintesi del tuo libro viene
affermato che Hindi, la protagonista, e sua sorella Relu passarono “drammaticamente nel maggio 1944 dai momenti
spensierati della loro adolescenza alla deportazione nel campo di
concentramento di Auschwitz, insieme ad altre diecimila persone, tutte
appartenenti alla comunità di Sighet.”
Mi si accappona la pelle al solo pensiero… Una tragedia immane, una
vergogna senza fine nella storia dell’Uomo, che non sarebbe mai dovuta accadere
e che invece, purtroppo, è accaduta… Come è potuto succedere – molti tra noi
ancora si chiedono – che più di 6 milioni di persone, prevalentemente ebree,
perdessero la vita sotto gli occhi più o meno indifferenti del resto
dell’Umanità… tragedia che, triste a dirsi, ha continuato, seppure con altri
popoli e per ragioni diverse, a riprodursi fino ai nostri giorni?
A: La storia è tappezzata di
olocausti. Questo, quello della seconda
guerra mondiale, è quello che più ci salta all’occhio, ma non dimentichiamoci
che le americhe furono conquistate grazie allo sterminio dei popoli che le
abitavano, i quali non sappiamo nemmeno quanti erano perché mai si erano
contati, e mai potremo saperlo. I 6
milioni potrebbero essere 8 come potrebbero essere 2. Nessuno lo sa con precisione, e finché si
azzarderanno numeri ci sarà sempre quello che dirà: “Ah, secondo me non sono
così tanti, sono solo 350.000”. E chi lo
smentisce? I tedeschi tennero tutti i
registri coadiuvati dalla IBM fino al giorno in cui fu chiaro che i russi erano
alle porte, e a quel punto fecero sparire tutto. Per cui i 6 milioni sono un numero che,
sinceramente, prendo per quello che è: un numero. A me quello che spaventa è che ancora oggi ci
sia qualcuno che dà ragione ad Hitler.
T: Infatti. Quello è il vero
problema: non imparare nulla dalla storia.
E quando non si impara dai propri errori, questi, come sappiamo, sono
destinati ad essere ripetuti. A questo
riguardo, cosa rispondi ai cosiddetti “negazionisti dell’Olocausto”? Io rimango allibita.
A: Diciamo che negare l’olocausto
è assolutamente ridicolo, ma come sempre, ogni teoria non è completamente
insensata, altrimenti l’autore della teoria stessa verrebbe rinchiuso in
manicomio il giorno dopo e addio teoria. Attenzione però: sai per quale motivo mi sono
sempre rifiutato di andare ad Auschwitz? Perché quel luogo è stato trasformato in una
sorta di Disneyland del dolore. Molti
testimoni, compresa gente che ho conosciuto personalmente (anche Hindi, fra
l’altro), dicono che i crematori di Auschwitz furono bombardati poco prima
della liberazione e mai più ricostruiti. Quelli che oggi si vedono ad Auschwitz sono
delle ricostruzioni, ma nessuno lo dice né lo scrive. Perché? Che motivo c’è di ricostruire l’orrore
spacciandolo per autentico? Forse giova
al turismo della zona? Beh, io a questo
punto non ho dubbi, posso convivere lo stesso con questa mancanza: ad Auschwitz
non ci andrò mai, ma non ho dubbi che in quel posto, in quel tempo, ci fu un
luogo di sterminio. Mio nonno finì a
Dachau. Non sono mai andato nemmeno lì. Mi sono bastati i suoi racconti, e so che
posso credere a quello che mi raccontò lui stesso.
T: La cosa più straziante, dal mio punto di vista, è che tutto questo
dolore, tutta questa sofferenza e la perdita di migliaia o addirittura milioni
di vite umane potevano essere evitati. Cosa
possiamo e avremmo già dovuto
imparare per evitare tale tragedia ed in che modo La ragazza di Sighet può essere d’aiuto affinché orrori del genere
restino, una volta e per tutte, solo esempi ammonitori della storia passata e
non si ripetano più?
A: L’insegnamento di quel libro è
uno ed uno solo: qualsiasi siano le condizioni in cui ti trovi, se lo vuoi,
puoi ricostruire la tua vita partendo dalle sue stesse rovine.
T: Il che ci riporta al proverbio in lingua inglese: “What doesn’t kill you, makes you stronger”
(Ciò che non ti uccide ti rende più forte), esperienza che molti di noi hanno
vissuto sulla propria pelle, anche se non necessariamente sfuggendo ad un campo
di concentramento. Ma è vero che, a
prescindere dalle condizioni in cui siamo e dagli ostacoli che ci troviamo ad
affrontare, è solo la forza interiore che può spingerci all’azione ed aiutarci
a “rialzarci e a proseguire il cammino”, proprio come ha fatto Hindi/India.
Nel tuo libro, emerge se la protagonista o qualche altra vittima
dell’olocausto e delle deportazioni da Sighet ad Auschwitz si fosse resa da
subito conto di cosa stesse accadendo e di come sarebbe finito il tutto… o se
fossero stati tutti colti, per così dire, da un fulmine a ciel sereno”?
A: Sembra che la consapevolezza
l’abbia avuta ancor prima di loro, mio zio Adolfo, che scrive ad Hindi nel 1942
da Plojesti in Romania: “India, sono
molto preoccupato per te. Ho già avvisato i miei genitori, qui trovi il loro
indirizzo. Da questo momento non
scrivere più a me ma scrivi a loro. Quando la guerra sarà finita verrò a sposarti.”
L’intenzione di Adolfo era chiara: lui, ufficiale dell’anagrafe, aveva
preparato il campo per accogliere al paesello la famiglia di Hindi. Laggiù, nell’assolata provincia mantovana,
avrebbe cambiato i connotati ai Friedman i quali sarebbero diventati… non so,
forse Frimatti o Bertolazzi come già aveva fatto con tanti altri. Lei non lo ascoltò e la cosa finì male. Il
giorno stesso della deportazione, chiusi nei vagoni bestiame, teorizzavano su
un possibile trasferimento in fattorie speciali. Avevano, purtroppo, tutti torto. Se ne accorsero solo giunti ad Auschwitz, dove
le cose si palesarono subito per quello che erano veramente. Adolfo invece aveva visto i trasporti degli
ebrei di Bucharest passare per Plojesti, e aveva capito che Sighet avrebbe
fatto la stessa fine, e in quel “mucchio” sarebbe finita la sua amata India. Inaccettabile per un uomo che era vissuto in
mezzo agli ebrei fin da bambino, persone che conosceva e stimava da sempre.
Inaccettabile. Tornò a casa con la
certezza che India si era salvata. Chissà
perché. Aveva ragione, ma non la ritrovò
mai più. Fu lei a ritrovare lui, per
caso, grazie al nipote (il sottoscritto) ma lui era già morto da tempo. E lei lo aveva dato per morto nel 1943 sotto
un bombardamento, chissà per quale strana ragione. Ai tempi non esistevano i cellulari. Comunicare non era semplice. Peccato.
T: Sì, peccato che le cose siano andate come sono andate… ma forse
ci fu anche in quel caso un motivo che al momento non riusciamo ancora a
vedere… Chissà, magari un giorno, in un’altra vita… ci verrà spiegato o lo
capiremo e tutto avrà (forse) finalmente un senso.
Nella nostra intervista di maggio
parlando di ‘autocritica’ hai affermato: “Proprio
sull’autocritica ho qualcosa da dire: io sono terrificante da questo punto di
vista nei confronti di me stesso, e tendo a giustificare tutto il resto del
mondo. Mia moglie dice che se domani
venisse Hitler, la figura che più mi ferisce a 360°, se venisse, dicevo,
piangendo a chiedermi di aiutarlo probabilmente lo aiuterei. E temo che abbia ragione. E la poesia non è
discriminatoria, di conseguenza io tendenzialmente con la poesia aiuto tutti
coloro che la leggono, Hitler compreso.”
Come ti dissi in quell’occasione, questo è un aspetto bello ed
altrettanto raro della natura umana che mi sarebbe piaciuto approfondire con
te. Ne approfitto, quindi, in questa
occasione. Le domande che, infatti,
molti si pongono in casi come questo sono le seguenti:
1) Dopo aver vissuto una
tragedia del genere, essere stati testimoni di atrocità indescrivibili… ed
essere vivi per miracolo… si può realmente riuscire a perdonare e a scendere a
patti con ciò che è stato?
2) E se sì, in che modo e
fino a che punto?
A: Se Dio stesso ci insegna e ci
dice di poter perdonare, per quale motivo non potremmo farlo noi essendo noi
stessi fatti a sua immagine e somiglianza?
Io credo nel perdono. Spero sempre di poterne godere gli effetti su di me in primis (sto scherzando), ma principalmente credo nel detto: le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. A volte la coscienza umana si distorce a tal punto da non poter più distinguere il bene dal male. E io non posso giudicare chi prende una strada sbagliata, ma semmai indicargli quella che ritengo essere la retta via. Sempre che sia nel giusto io stesso. Chi lo sa. Ma le religioni nascono per questo, per cercare di dare una guida comune da seguire, non credi?
Io credo nel perdono. Spero sempre di poterne godere gli effetti su di me in primis (sto scherzando), ma principalmente credo nel detto: le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. A volte la coscienza umana si distorce a tal punto da non poter più distinguere il bene dal male. E io non posso giudicare chi prende una strada sbagliata, ma semmai indicargli quella che ritengo essere la retta via. Sempre che sia nel giusto io stesso. Chi lo sa. Ma le religioni nascono per questo, per cercare di dare una guida comune da seguire, non credi?
T: Sì, sono d’accordo anche
se ci sarebbe molto da dire su questo argomento. Per quanto riguarda il perdono, benché a
volte potrebbe essere difficile concederlo, noi tutti dovremmo, in effetti,
essere in grado di perdonare o comunque di sviluppare la capacità di
farlo. È interessante notare che,
etimologicamente, il termine ‘per-donare’ rende l’idea del “dare in dono”,
quindi è un incoraggiamento a non focalizzarci sul male che potremmo aver ricevuto
o il torto che potrebbe esserci stato fatto. Questo, naturalmente, non significa affatto
che quando perdoniamo noi dimentichiamo o giustifichiamo il male che è stato
fatto, soprattutto se si tratta di qualcosa di grave. Al contrario, nel momento in cui riusciamo realmente
a perdonare, noi ci alleggeriamo di un pesante fardello: il “carico” che
stavamo trasportando e che consiste nella sofferenza, nel risentimento, nel
dolore, e, a volte, anche nell’odio che potremmo aver provato per coloro che ci
hanno fatto soffrire. Sentimenti
negativi come quelli appena menzionati, sono in effetti energie deleterie,
distruttive, che hanno ripercussioni su chi le prova, quindi sulla nostra
salute a tutti i livelli – psichico, mentale, emotivo e persino fisico. Questo implica che se perdoniamo veramente… ne beneficiamo anche in
quanto a salute… anche se non dovremmo farlo per questo motivo… ben inteso.
In questo ambito, mi viene in mente un altro aspetto… Nella Bibbia,
libro considerato da molti quale ‘Ispirata Parola di Dio’, veniamo esortati ad
odiare il male. È possibile, secondo te,
odiare il male senza odiare chi lo pratica e mostra addirittura di godere della
sofferenza inflitta agli altri? Come si
fa a distinguere tra i due e a creare una netta divisione tra soggetto ed
azione da lui/lei praticata?
A: Errore di traduzione: non è
“odiare” il male, ma “ripudiare” il male.
T: Grazie per questa precisazione.
A: Prego. Il male è parte della nostra esistenza. Senza il male non esisterebbe il bene in
quanto non ci sarebbe paragone di contrasto. “Sul
cemento non nasce niente, sul letame nascono i fiori” diceva De André. I fiori sono belli e profumati, il letame
molto meno. Senza letame i fiori non
spuntano nemmeno dal terreno, e allora come la mettiamo? Il male bisogna conoscerlo e solo dopo averlo
conosciuto si può ripudiare. Ed ecco
spiegato il concetto di perdono in termini universali. Chi non ha conosciuto il male non può
perdonare. Chi non capisce, guarisce, citazione talmudica. Le botti di vino inacidito che causano tanto
dolore al suo proprietario salvo poi scoprire che l’aceto vale più del vino. Ti dirò di più: nel Vangelo viene scritto
chiaramente, ma spesso male interpretato, che Giuda Iscariota, il traditore,
nella realtà è parte di un disegno divino molto complesso. Un aspetto che fatichiamo molto a digerire,
cioè che il male sia parte della comprensione del bene. Eppure Gesù Cristo, Yesu a Nosseri, un ebreo di Nazareth che dice tante cose
interessanti ma di difficile interpretazione, in questo caso lo fa capire bene:
“io so che tu mi tradirai, e so che tu mi ripudierai, so che tu non mi
crederai, so che tu non mi sosterrai, ma muoio [e risorgo] per te”. Dunque, il male e il bene sono parte dello
stesso disegno. Assolutamente indivisibili.
Concludendo: il male necessita della nostra comprensione. È un bisogno primario quello di comprendere il
male. Se non fosse così, l’olocausto o
lo sterminio delle popolazioni delle americhe precolombiane (per esempio) non
avrebbero alcun senso teologico e la comprensione del disegno divino, già
piuttosto nebbioso così come è, sarebbe quantomeno minato alla base. Se, d’altro canto, il risultato di tale
comprensione è il perdono, io non mi scandalizzo proprio. Lo trovo piuttosto naturale e... umano ancor
più che divino.
T: Infatti. Interessante
argomentazione che richiederebbe un approfondimento, ma andremmo fuori tema…
Tornando, quindi, al tuo libro… La Ragazza
di Sighet è anche una storia d’Amore o sull’Amore?
A: È una storia che viene scritta
NELL’AMORE. Quel libro è impregnato di
amore, amore per quello che si è perduto, amore per quello che si è ritrovato,
amore per quello che si sarebbe potuto avere, ma anche amore per quello che si
è ottenuto dopo aver vissuto la follia e la miseria nera del campo di
concentramento: IL RINNOVAMENTO. Ecco il vero senso dell’Amore, sapersi
rinnovare continuamente. Amo perché ogni
giorno il mio amore è nuovo amore. Pensaci.
T: Bellissima considerazione ed altrettanto vera. Sono contenta di come hai elaborato questo
pensiero perché molto spesso quando si parla di Amore la gente pensa alla
coppia. Ma l’Amore va ben oltre il rapporto di coppia: l’Amore è una forza dinamica,
universale, creatrice e rinnovatrice. Ma
qui mi fermo perché questo argomento è talmente vasto che richiederebbe molto
tempo o quantomeno un’intervista a se stante.
Grazie Aldo per la tua partecipazione. Vogliamo ricordare ai lettori
che volessero contattarti o ordinare il tuo libro in che modo possono farlo?
A: Certamente: il libro in
Italiano si trova su Ebay abbastanza facilmente, mentre per la versione
americana in inglese bisogna cercarlo con più attenzione sotto il nome de “The
Girl from Sighet”. Se invece qualcuno lo volesse avere dalle mie manine e
magari amorevolmente autografato, può chiedermelo direttamente al mio indirizzo
di posta elettronica e (previo purtroppo pagamento di 17€ + spese postali,
prezzo imposto dall’editore) glielo posso spedire se si trova lontano da
Soncino, dove vivo, oppure se si trova dalle mie parti glielo posso portare
personalmente in cambio di un buon caffé al posto delle spese di spedizione.
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